Siamo ormai all’ultimo grido d’allarme. Lo lanceranno martedì mattina a Roma, in piazza Montecitorio, la Fisc (Federazione italiana settimanali cattolici), Fnsi, Mediacoop, Uspi, Confcooperative-Federcultura e altri in un’assemblea convocata all’Hotel Nazionale, ma potrebbe rimanere un urlo strozzato in gola. Decine di giornali sono sulla via della chiusura. Migliaia di operatori di settore rischiano il posto di lavoro. Ne soffrirà il pluralismo informativo dell’intero Paese se verranno meno testate storiche per tradizione e legame col territorio e fondamentali per le idee con le quali arricchiscono il dibattito pubblico.
In ballo, lo scriviamo per l’ennesima volta, ci sono i contributi all’editoria, una materia delicatissima, finita sotto la scure dei tagli indiscriminati di questo tremendo periodo di crisi economica.
Nessuno, lo ribadiamo, si vuole sottrarre alle proprie responsabilità e alla propria parte di sacrifici. Vengono chiesti a tutti, e il mondo dei giornali non può pensarsi come un mondo a parte. Il rigore va perseguito e una maggiore sobrietà è auspicata in ogni direzione, compresa quella dell’informazione. Ma un conto sono tagli 'duri' del 10, 20 o 30 per cento, comunque pesanti, un altro sono riduzioni improvvise e insostenibili di oltre i due terzi dei contributi pubblici pensati a suo tempo per favorire la presenza di più voci in un settore chiave come quello dei mass media condizionato in Italia, caso unico in Europa, da uno strutturale squilibrio a tutto favore dell’oligopolio televisivo.
Ad anno ormai ultimato, molti editori ancora non hanno certezza dell’ammontare del contributo pubblico da poter inserire in bilancio.
Una situazione paradossale che non consente di pianificare il lavoro e mette in gravissima difficoltà gli amministratori ai quali pare non rimanere altra via che quella della chiusura.
I contributi all’editoria sono sorti per incoraggiare la democrazia informativa e per mettere un puntello a un mercato pubblicitario sbilanciato, lo ripetiamo, verso le maggiori televisioni. Nel momento in cui si procede ai tagli, non si possono dimenticare le ragioni per cui sono nate certe leggi.
Tagliare si deve, e dunque va fatto per perseguire un bene più grande e di tutti. Ma si può e si deve agire in maniera graduale e su più piani, come farebbe qualunque buon amministratore. Ecco perché diciamo di essere arrivati all’ultima chiamata. O si trovano una novantina di milioni nel bilancio dello Stato da aggiungere ai soli 53 rimasti disponibili, oppure si spegneranno per sempre testate storiche che sono espressione di una parte di quell’Italia vera e profonda che esiste e resiste, ma quasi mai appare e trova voce. Un assurdo nell’epoca dell’informazione globale. Un assurdo che rischia di trasformarsi in drammatica attualità se in tempi brevissimi non si sarà in grado di fornire risposte certe ad aziende editoriali che da troppi mesi si trovano con l’acqua alla gola.
Perdere anche un solo giornale è un lusso che il nostro Paese non può permettersi, soprattutto in questa fase della vita della nostra comunità nazionale, con passaggi elettorali e istituzionali di estrema delicatezza.
Chiudere giornali significa togliere spazio ed espressione a grande parte della gente che in quei giornali si ritrova e si riconosce. Significa impoverire il dibattito culturale, spesso appiattito su slogan urlati e non meditati e condizionato da grandi network informativi controllati dai soliti noti.
Significa anche tagliare le radici storiche e umane a molta parte del territorio italiano che spesso fa riferimento a «fogli» di provincia che non finiscono nelle rassegne stampa nazionali. Fogli che da lunghissimo tempo, però, favoriscono una vasta trama di rapporti locali e nazionali.
Non si può sacrificare il pluralismo nel campo dell’informazione per alcune decine di milioni di euro. Sarebbe una scelta politica miope. I bilanci non si realizzano solo con i numeri, ma anche con quell’apporto di idee che emerge da un confronto franco e serrato fra più soggetti liberi di esprimersi, come è accaduto fino a ieri e come deve accadere ancora.