La professoressa Corradi nel 1992 con alcuni studenti ErasmusSessant’anni fa non era così. La burocrazia era un muro insuperabile. «Me ne accorsi nel 1958, con una solenne arrabbiatura. Stavo terminando il corso di laurea in giurisprudenza a Roma. Con una borsa di studio Fulbright, avevo frequentato per un anno la Columbia University di New York, conseguendo un master in diritto comparato. Munita di certificati, al mio ritorno pensai di chiedere all’università La Sapienza il riconoscimento degli studi come equivalenti dei tre esami che ancora mi mancavano, in modo da poter affrontare la tesi. Andai lì in buona fede e speranzosa, ma il capo della segreteria della Sapienza mi trattò malissimo: 'Signorina, lei pensa di andare a spasso per il mondo e poi venir qui a chiedere la laurea? Vada a casa, piuttosto, a studiare. E, solo se supererà gli esami mancanti, torni qui per la tesi', strillò. Ero mortificata, avevo un libretto zeppo di 30 e lode e invece sembrava quasi che volessi rubacchiare qualche esame. Umiliata, andai a casa, mi misi a studiare e mi laureai». Quella scenata sprona la giovane Corradi: «Non volevo che altri studenti patissero un trattamento del genere. Negli Usa, in un pensionato, mi era capitato di cenare col celebre banchiere David Rockfeller, che mi spiegò come anche una sola persona, priva di potere ma preparatissima, potesse cambiare le cose». Per farlo davvero, occorre guadagnarsi il sostegno dei 'decisori', nell’università e nella politica. Così Corradi, divenuta ricercatrice all’Onu sul diritto allo studio, consulta tomi e pandette: «Mi confortò un precedente: in Italia uno dei principi Borghese aveva ottenuto, in tribunale, il riconoscimento degli studi all’estero dei figli». Nel Trattato di Roma, che ha dato vita alle istituzioni europee, di istruzione non si parla. E nei ministeri competenti, lo studio all’estero viene visto come «un male necessario», riservato ai figli di italiani che vivono fuori dal Paese.
Sofia Corradi nel giorno della sua laureaLa svolta arriva mentre gli universitari europei contestano sulle barricate del ’68. La nascente «autonomia» degli atenei offre un trampolino al progetto, sostituendo il concetto di «equivalenza» degli esami sostenuti all’estero, stabilita da accordi fra Stati, con quello di «riconoscimento», per il quale bastano gli accordi fra atenei. D’aiuto è anche la maggior libertà concessa agli universitari nel comporre il piano di studio. La professoressa elabora un appunto e insieme al rettore dell’Università di Pisa Alessandro Faedo, «matematico geniale, amico di Enrico Fermi», lo consegna al ministro della Pubblica Istruzione dell’epoca, Mario Ferrari Aggradi: «Andammo nel suo studio, al Ministero, alle 7.30 del mattino, e lo convincemmo ad ascoltarci. In seguito, lo facemmo anche col ministro Riccardo Misasi». Ferrari Aggradi tramuta quell’appunto in uno schema di articolo da inserire nella riforma, che sarà approvata in seguito, in cui si stabilisce che ogni studente, seppur «non appartenente a famiglia residente all’estero, può chiedere di svolgere parte del suo piano di studio presso università straniere», presentandolo preventivamente all’approvazione del Consiglio di Facoltà» che potrà dichiarare l’equivalenza, effettiva solo «dopo che lo studente avrà prodotto la documentazione degli studi compiuti all’estero». Il 10 ottobre 1969, quell’appunto si trasforma in un promemoria «chiaro, conciso e battuto a macchina» dalla Corradi, che poi lo ciclostila in migliaia di copie e lo invia «a tutti i rettori e a qualsiasi autorità, in Italia o all’estero, che speravamo di coinvolgere nell’iniziativa». Faedo, presidente della Conferenza dei rettori italiani, se ne fa alfiere e, dopo aver preparato il terreno in un incontro fra omologhi europei a Ginevra, ne discute coi colleghi delle università tedesche e francesi, in riunioni bilaterali a Karlsruhe e Pisa: «Fu un passaggio importante, ne scrissero diversi quotidiani, sottraendo per una volta spazio alla cronaca nera». Nel 1976, vengono riconosciuti i primi esami effettuati da studenti italiani in Francia. Il progetto pian piano avanza: «Io insegnavo all’università e tempestavo coi miei promemoria chiunque avesse un potere decisionale. Mi avvistavano da lontano, nei palazzi della politica: ecco la Corradi, quella rompiscatole. Ma io insistevo, l’ho fatto per 18 anni e non mi sono mai arresa». Dopo molte battaglie, «rallentamenti e qualche sconfitta», l’odissea burocratica partita da quel promemoria si conclude nel 1987, quando l’Unione europea decreta ufficialmente la nascita dell’Erasmus: «Nei tratti essenziali del progetto europeo, ricorrono quelli delineati anni prima nel mio appunto».Da allora, 4 milioni di studenti hanno colto l’opportunità, riservata adesso anche a lavoratori, professionisti e volontari. «Studiare all’estero, aprire la propria mente alla diversità culturale è un’esperienza straordinaria, ti consente di trovare impieghi migliori e più remunerati». Altro che correre dietro alle gonnelle: «Era ciò che dicevano i detrattori. Ma sarebbe ben strano che a quell’età i giovani non s’innamorassero. E chi non vuole studiare, non studierà neppure a casa sua». Ma non trova un controsenso un’Europa che fa viaggiare gli studenti e alza muri di fronte ai profughi di guerre e carestie? «Papa Francesco fa bene a sollecitare più accoglienza. Da parte mia, non posso credere che i giovani politici della generazione Erasmus alzino muri. Quando ce ne saranno di più nei governi europei, certe barriere ideologiche spariranno». Il momento della premiazione incombe: «Ci andrò con mia figlia e con le mie giovani nipoti». Hanno già fatto l’Erasmus? «No, ma in futuro potrebbero farlo». Così lei potrebbe diventare nonna Erasmus? «Non me lo aveva ancora detto nessuno, ma penso proprio di sì. Ovviamente, ne sarei felice...».