Dopo Tunisi il vento della ribellione soffia al Cairo, con le manifestazioni di piazza che sono proseguite anche ieri nonostante la dura repressione delle forze di polizia. Si moltiplicano "le giornate della collera" nei Paesi arabi che s’affacciano sul Mediterraneo, nessuno dei quali sembra essere immune dal contagio della rivolta. È qualcosa d’inaspettato e sorprendente questo movimento dal basso i cui protagonisti non sono i tradizionali partiti d’opposizione ma migliaia di giovani che condividono la stessa rabbia e le stesse speranze attraverso i social network. La "rivoluzione dei gelsomini", scoppiata due settimane fa in Tunisia, è già diventato un marchio d’esportazione, lanciato come guanto di sfida ai regimi autoritari della regione.«Tunisi è la Danzica del mondo arabo», ha scritto sull’Herald Tribune uno dei più noti politologi americani, Roger Cohen, tracciando un paragone tra il movimento di protesta esploso nelle scorse settimane nel Maghreb e il sindacato polacco Solidarnosc nato nel 1980 sulle rive del Baltico e culminato nel 1989 con la caduta del Muro di Berlino. È un raffronto suggestivo che esalta la protesta dei tunisini, i primi a far cadere un dittatore nel mondo arabo. Un atto liberatorio che ha spezzato le catene della «mente prigioniera» (per dirla con le parole del grande scrittore polacco Czeslaw Milosz), quel misto di rassegnazione fatalistica e di sottomissione timorosa che ha contraddistinto le società sovietizzate dell’Est Europa e oggi continua a essere la caratteristica dominante di gran parte del mondo arabo. Insomma, il grido «pane e libertà» che dalla Tunisia è rimbalzato sulle piazze d’Egitto può innescare un effetto domino in tanti altri Paesi arabi dove la povertà di gran parte della popolazione convive con l’ostentata ricchezza e la corruzione delle élites al potere. È un grido che ha già raggiunto il cuore del mondo arabo, il Paese del "Faraone" (così gli egiziani continuano a chiamare Mubarak, il vecchio raìs al potere da trent’anni), sostenuto dalle democrazie occidentali che l’hanno sempre considerato il garante fondamentale della stabilità della regione e il mediatore indispensabile per portare avanti il sempre più difficile processo di pace in Medio Oriente. Anche per questo è difficile al momento ipotizzare una sua imminente caduta, nonostante che le piazze del Cairo lo invitino a prendere l’aereo per un esilio dorato sull’esempio del tunisino Ben Alì.Che il mondo arabo faccia sua l’esperienza di Solidarnosc, la rivoluzione dove non si ruppe neanche un vetro, è certamente auspicabile. Ma al momento appare difficilmente realizzabile. Siamo sempre in attesa di un nuovo movimento dal basso che riesca ad affermarsi senza cedere alla violenza, all’odio e all’estremismo. Da questo punto di vista la stessa "rivoluzione dei gelsomini" appare ambigua e incerta, sempre a rischio d’imboccare una transizione manipolata dalle fazioni più radicali e dagli integralisti islamici. In Egitto incombe la minaccia dei "Fratelli musulmani", pronti a sfruttare la rabbia popolare per instaurare un regime fondamentalista.Purtroppo la storia ha dimostrato che nei Paesi a maggioranza islamica, quando cade un dittatore subito ne sorge un altro. Valga per tutti il caso dell’Iran dove nel 1979 la rivoluzione khomeinista rovesciò lo Scià per sostituirlo con la teocrazia degli ayatollah. Qualcosa di simile era successo in Egitto quando Nasser prese il posto di re Faruk. Per questo guardiamo alle proteste di piazza a Tunisi e al Cairo con simpatia e al tempo stesso con preoccupazione. Il sogno di una Danzica araba deve ancora diventare realtà.