Finirà che prima o poi nel repertorio della commedia dell’arte, accanto a sperimentati tormentoni come "la malmaritata", "la serva padrona", "l’avaro punito", troverà posto un canovaccio non meno appetitoso, quello della "lite fra le comari". E questa volta non dobbiamo scomodare Shakespeare, Molière o Goldoni per rintracciarne le origini, perché in questo caso la fonte - assai più modesta - è la politica italiana. Tutto cominciò nel 1982, nel corso del secondo governo Spadolini, il quale aveva affidato due dicasteri strategici, il Tesoro e le Finanze, rispettivamente al democristiano Beniamino Andreatta e al socialista Rino Formica. Caratteri più diversi non si sarebbero potuti appaiare: trentino, economista,
visiting professor a Cambridge, uomo di rigore e di vulcanica flemma (assimilata dalle ripetute frequentazioni britanniche) il primo; ruvido e sanguigno uomo di partito barese con una spiccata tendenza al non aver peli sulla lingua il secondo, lo scontro fra questi due galli nel pollaio era inevitabile. E infatti avvenne, allorché Andreatta - non si sa se con calcolata malizia o per uno sventurato anglicismo che antepose l’aggettivo al sostantivo - definì "nazional-socialista" l’indirizzo del Psi che adombrava l’ipotesi di tassare i Bot o consolidare i titoli del debito pubblico. Inutilmente Andreatta precisò che intendeva dire "socialista e nazionalista", ovvero fautore della mano pubblica e delle partecipazioni statali e sospettoso di fronte alle privatizzazioni e alla
deregulation: grande fu la polemica, soprattutto da parte del ministro Formica, che criticò con l’asprezza che gli era d’uso il collega di governo. Il quale, piccato, rispose a stretto giro, definendo - con quella iattanza che spesso contrassegna gli economisti di vaglia - l’esponente socialista «un commercialista di Bari esperto di fallimenti e bancarotte». Formica replicò a sua volta, bollando Andreatta con l’epiteto di "comare".Lo screzio trovò così il suo apice e Spadolini ne fece la sintesi perfetta: "la lite delle comari", appunto. Dietro ad esso, naturalmente, c’era ben altro, tanto che il governo cadde di lì a poco e con esso gli onorevoli ministri in eterno bisticcio.Oggi assistiamo a qualcosa di analogo nelle punzecchiature fra il ministro della Pubblica amministrazione e dell’Innovazione, Renato Brunetta, e quello dell’Economia, Giulio Tremonti: il primo a reclamare investimenti pur nel rigore dei conti, il secondo a stringere i cordoni della borsa, il primo a insistere sul fatto che Tremonti sia un giurista e non un economista, il secondo a far rimarcare stizzito come la linea perseguita dal suo dicastero sia condivisa direttamente dal presidente del Consiglio. Una lite, anzi, una baruffa di comari anche questa, a ben vedere, visto che inclina a scivolare di tono perdendo di vista i problemi reali.E dire che - come più d’uno ha osservato - la questione non è stabilire chi sia più virtuoso e chi più titolato, quanto governare un debito pubblico che in tutto il mondo sta crescendo vertiginosamente (anche se in Italia percentualmente molto meno che altrove) facendolo coesistere con la necessità di superare la crisi e la prospettiva di una ripresa che s’intravede per l’anno a venire, ma i cui costi sociali sono ancora un’incognita. E poi (il teatro serve anche a questo) la "lite delle comari" dovrebbe pur insegnare qualcosa: né Andreatta né Formica vennero riconfermati nel successivo governo Fanfani. Le comari sono avvisate.