La vita non è semplicemente destino
Amartya Sen, Identità e violenza
Nel mondo antico il nome era compito e promessa, era destino. Il nome orientava decisamente la vita fin dal suo inizio. Ecco perché il nome era ricoperto da un velo. Rivelare il nome a qualcuno significava farlo affacciare sul mistero della propria intimità velata. Una traccia di questo mistero resta oggi nei nomi della madre, del padre, dei nonni, delle zie e degli zii, dove il nome della relazione prima non fa pronunciare il nome proprio Noi conosciamo i nomi di mamma e babbo, ma non li pronunciamo, per conservare un po’ del loro mistero d’amore. Li impariamo perché li pronunciano gli altri, noi li scopriamo sulla loro bocca – pochissime cose fanno più male a un bambino, a una bambina o a un ragazzo di sentire nominare il nome del papà e della mamma senza amore: è una profanazione del cuore. Oggi noi sappiamo, almeno lo sappiamo in molti e molte, che siamo più grandi del nostro nome, che grazie alla nostra libertà possiamo cambiare il nostro destino, che possiamo far dire al nostro nome cose diverse da quelle che avevano in mente i nostri genitori e la vita stessa. L’uomo biblico non lo sapeva ancora. Lo ha dovuto imparare, con grande fatica. E qualche volta ci è riuscito.
«Gomer concepì e gli partorì un figlio. E il Signore disse a Osea: "Chiamalo Izreèl, perché tra poco punirò la casa di Ieu per il sangue sparso a Izreèl e porrò fine al regno della casa d’Israele"» (Osea 1,3-4). La moglie infedele di Osea, Gomer, partorisce un bambino. È Dio che gli dà il nome. Dopo l’ordine di sposare una "prostituta", Dio continua a parlare a Osea dentro la carne della sua carne. Come fece con Isaia, il cui figlio portò iscritto nel suo nome la stupenda profezia del padre – "Seariasùb: un resto tornerà" (Is 7,3). I primi dialoghi tra Dio e il suo profeta sono parole di carne, parole di casa, che la profezia impari parole di cielo sotto una tenda, che il suo primo vocabolario sia lessico famigliare.
Gli studiosi continuano a offrire nuove interpretazioni del significato del nome Izreèl, un nome legato alle terribili battaglie che si erano svolte nella piana di Izreèl, ai reati di sangue lì perpetrati da Ieu, il re fondatore della dinastia regnante nel tempo di Osea. Il Secondo Libro dei Re dà di Ieu una lettura diversa da quella di Osea: «YHWH disse a Ieu: "Poiché hai agito bene, facendo ciò che è giusto ai miei occhi..."» (2 Re 10,30). Facendo ciò che è giusto ai miei occhi, cioè: l’assassinio di Ioram, i settanta bambini decapitati, lo sterminio di tutti i fedeli a Ioram in Samaria. Una giustizia che noi non capiamo più, grazie alla stessa Bibbia che maturando nel terreno della storia ci ha fatto superare l’idea di giustizia che essa stessa conteneva. Una giustizia che non capiva neanche Osea, che non avrebbe mai scritto una frase come quella appena citata – la Bibbia è grande anche per le diverse e opposte letture dei fatti presenti al suo interno. Il nome del figlio è dunque un nome di sangue per un messaggio di sangue.
«La donna concepì di nuovo e partorì una figlia e il Signore disse a Osea: "Chiamala Non-amata, perché non amerò più la casa d’Israele, non li perdonerò più…"» (1,6). Non-amata, Lo’-ruhamah, un nome che fa uso, pervertendola, della grande parola raham (viscere), la radice di misericordia (rahamim). È la parola del padre del figliol prodigo, del Buon samaritano. Non-amata, non degna di misericordia: una figlia per la quale non si commuovono le viscere della madre, del padre, di Dio. Questi sono i profeti. Per intuirne un poco il mistero non dobbiamo togliere neanche un epsilon al paradosso. Osea, per parlare in nome di YHWH, deve dare a sua figlia – e sappiamo cosa sono le figlie per i padri – un nome perverso, che nega il senso profondo di ogni maternità, paternità, figliolanza, che nega la stessa vita. E lo deve fare perché sta per avvenire sulla terra il delitto più grande: perché non amerò più la casa d’Israele, non li perdonerò più. E se YHWH – l’unico Dio vero, il padre del popolo, il nome più bello, talmente bello da proteggerlo con una non-pronunzia – per la nostra infedeltà spezza l’Alleanza fatta con l’Adam, con Noè, con Abramo e con Mosè, se non ama più il popolo che si era scelto e aveva salvato dall’Egitto, se il Dio misericordioso non perdona più, allora davvero si è spento il sole, non c’è più nulla di valore sulla terra, le viscere delle madri non si muovono più. Questo è il Dio nella Bibbia – niente di più, niente di meno. L’alleanza non è una faccenda religiosa, Dio non è quell’Essere perfettissimo di cui abbiamo imparato a ricordarci al catechismo, nelle feste comandate e nei funerali; no, il Dio biblico è l’orizzonte dell’essere, è il fondamento della vita, è la luce che illumina ogni giorno. Se si spegne, si secca tutto ciò che è vivo. Questa è la profezia, questi sono i profeti, che devono ricordare al popolo chi è davvero il Dio biblico. Se la Bibbia ha resistito e resiste da più di due millenni ai venti di vanitas della terra, è perché i profeti hanno salvato questo Dio diverso, e continuano a salvarlo. Non lo hanno fatto diventare un dio-per-bene, un dio-educato, un dio-del-buon-senso; no, lo hanno custodito dentro il suo paradosso, e così Dio è rimasto vivo.
Il messaggio famigliare di Osea diventa ancora più chiaro e forte con il terzo figlio: «Quando ebbe svezzato Non-amata, Gomer concepì e partorì un figlio. E il Signore disse a Osea: "Chiamalo Non-popolo-mio, perché voi non siete popolo mio e io non sono Io-Sono per voi"» (1,8-9). Il terzo nome del figlio: Non-mio-popolo, Lo’-’ammî. La rottura del patto qui diventa definitiva. YHWH, l’Io-Sono rivelato a Mosè, si ritira, e il nome si rovescia nel suo opposto: non sono più Io-Sono. E così si ritira e rovescia il Patto: voi non siete più il popolo mio. Per Osea il popolo può vivere (e forse deve) senza re, ma non è più se stesso senza il suo rapporto speciale e unico con il suo Dio.
Eccoci di fronte alla rivelazione di nuove dimensioni della profezia – e quindi di molte vocazioni autentiche. Qui Osea non ci sta spiegando soltanto cosa è l’Alleanza, né quale è la natura profonda del popolo di Israele; non ci sta nemmeno dicendo soltanto chi è il Dio biblico. Ci sta parlando anche di sé stesso, ci sta dicendo chi è veramente un profeta.
Un profeta può anche vivere senza "re", cioè senza potere, istituzioni e strutture. Può anche vivere senza il tempio, cioè senza culto e senza religione. Ma muore se esce dall’ubbidienza assoluta alla voce. Se esce da questo dialogo si perde, si smarrisce, si spegne. E finché è vivo Io-Sono, il nome-non-nome di tutti i nomi, dobbiamo dare ai nostri figli e figlie i nomi più belli e buoni, perché la paternità è anche dare nomi meravigliosi ai figli, e poi liberarli dal peso dei "nomi" che abbiamo scelto per loro – e se non ci riusciamo, ci possiamo sempre addormentare con la speranza che sarà un’altra mano a completare il compito. Ma quando muore l’Io-Sono, quando svanisce il Nome, tutti i nomi diventano vento; e allora possiamo anche dare nomi assurdi ai nostri figli, alle nostre creature, alle nostre opere, alle nostre imprese, ai nostri lavori.
Ogni vocazione vera, che cioè non sia solo auto-inganno, è tremenda e assoluta come i comandi a Osea. Niente di più, niente di meno. Alle vocazioni vere si può soltanto ubbidire, si può solo stare dentro un paradosso di carne. Sono una ferita aperta, che sanguina per tutta la vita. Ecco perché sono faccende arcaiche, distanti dallo spirito della libertà dei moderni. Sono veramente e soltanto destino. Nelle vocazioni vere non siamo più grandi del nostro destino, non siamo più grandi del nostro nome, dicendo "sì" liberamente rinunciamo al controllo del nostro destino e nome. Ma i nostri figli no. Loro non devono restare intrappolati dentro i "nomi" che noi abbiamo scelto per loro obbedendo a una voce.
Ed ecco allora irrompere su quella tenebra uno dei canti più luminosi di Osea, che ci riporta alla promessa di Abramo e di Mosè: «Il numero degli Israeliti sarà come la sabbia del mare… E avverrà che invece di dire loro: "Voi non siete popolo mio", si dirà loro: "Siete figli del Dio vivente". ... Sarà il giorno di Izreèl! Dite ai vostri fratelli: "Popolo mio", e alle vostre sorelle: "Amata"» (2,1-3). Non sappiamo chi scrisse questi tre versetti, così diversi da quelli che li precedono (e da quelli che li seguono). Probabilmente furono scritti molto tempo dopo Osea, dopo l’esilio, quando gli israeliti avevano fatto di nuovo l’esperienza dell’Io-Sono e della sua misericordia. E un antico scrittore cambiò il nome dei figli di Osea. Ci vollero più generazioni per far risorgere quei tristi nomi. Un anonimo scriba, forse profeta anch’egli, volle aggiungere questi versi per liberare quei bambini dalle catene del loro nome. In realtà, i figli di Osea portarono (crediamo) quei nomi per tutta la vita. Ma quella liberazione postuma operata dalla Bibbia, li ha liberati davvero – e se così non fosse, la Bibbia sarebbe fiction.
Il senso dei nomi qualche volta ha bisogno di tempo e di una mano diversa dalla nostra per svelarsi. È la mano di un nipote che scrive il vero senso della storia assurda di un nonno, quella di una figlia che svela il senso della sofferenza indicibile di una madre. Il profeta non può cambiare il proprio nome, perché le vocazioni possiamo solo essere abitate e ubbidite. Ma un altro, o la vita stessa, può cambiare il nome dei nostri figli. Il destino dei figli è legato al nostro, certamente; ma non lo è per sempre, perché c’è una dimensione del loro destino che non dipende, e non deve dipendere, da quello dei padri.
Ciò vale per i figli in carne ed ossa, ma vale anche per le opere dei profeti, dei fondatori di comunità carismatiche. Le loro opere nascono legate al loro destino, ma un giorno può arrivare un’altra mano che le libera, dando loro un senso diverso di quello pensato e voluto dal fondatore, e le risuscita a una nuova vita. Ma queste cose le sanno soltanto i profeti, e i loro amici che sanno ascoltare questi sussurri.
l.bruni@lumsa.it