La Bibbia non è un libro su Dio: è un libro sull’uomo. Nella prospettiva della Bibbia: chi è l’uomo? È un essere posto nel travaglio ma che ha i sogni e i disegni di Dio. Sogno di Dio è di non essere solo, ma di avere il genere umano a compagno nel dramma della continua creazione
Abraham Heschel, Chi è l’uomo?
«Il Signore è il mio pastore: non manco di nulla; su pascoli erbosi mi fa riposare ad acque tranquille mi conduce. Mi rinfranca, mi guida per il giusto cammino, per amore del suo nome» (Salmo 23, 1-4). Siamo arrivati alla più bella metafora-preghiera della Bibbia. Tutta la Bibbia è metafora, ogni preghiera è metafora. Le metafore non sono solo strumento retorico e narrativo, sono anche mezzo di scoperta, per poter capire e dire cose che non potremmo capire e dire senza la rivelazione di quella metafora - anche questa è rivelazione: Dio ci si rivela anche suggerendo ai poeti metafore, che poi il popolo vaglia con il sesto senso della sua fede e della tradizione. Milioni di persone, attraverso i millenni, hanno pregato e cantato questo salmo, che è tra i più amati di tutta la Bibbia, che continua a essere cantato in tutti i monasteri e conventi del mondo, con l’anima e con la cetra. È stato ed è l’ultimo saluto ai nostri cari, la preghiera di chi sta per attraversare una "valle oscura" e vuole farlo con la stessa fede-speranza-amore del salmista.
Il popolo d’Israele ha imparato a conoscere Dio guardando l’umile, faticoso e difficile lavoro del pastore. Osservando questo antico protagonista delle economie nomadi ha capito meglio la grammatica dell’Alleanza, ha imparato qualcosa di più della natura di quel loro Dio diverso senza immagini e dal nome impronunciabile. Non hanno guardato i re, i faraoni, gli uomini potenti del popolo; hanno invece conosciuto Dio guardando un lavoro umano, osservando fin nei più minuti dettagli l’azione di un lavoratore, con l’odore delle pecore addosso, impolverato, analfabeta, povero di lingua. Dalle non-parole di un lavoratore nomade la Bibbia ha appreso parole per parlarci di Dio, lasciandoci immagini tra le più ricche e amate dell’intera letteratura religiosa. Che ci ricordano che noi impariamo chi è Dio guardando gli uomini e le donne, perché insieme al "cielo stellato e la legge morale" è la vita concreta degli esseri umani che ci svela la grammatica divina, che nell’antropologia si nasconde la teologia biblica. E che quindi ogni volta che ci ritroviamo vuoti di parole per pregare, possiamo guardare anche la gente che lavora, e lì rimparare a pregare. Pastori, operai, artigiani, insegnanti, imprenditori - chissà come quell’antico poeta scriverebbe il suo salmo in una società post-industriale?
Un giorno un poeta comprese che esisteva un’analogia tra il mestiere del pastore e il loro Dio. E così la metafora del pastore divenne quell’immagine di Dio mancante per suo esplicito comando. Quel popolo capì che dovevano guardare i pastori per capire la logica del loro Dio, e che quindi li avrebbe sempre guidati "per il giusto cammino", e che lo avrebbe fatto "per amore del suo nome", in virtù cioè della sua natura, perché se lo fanno i pastori deve farlo anche Dio. Il Salmo 23 è soprattutto una dichiarazione di fede, un canto d’amore a quel Dio che quel salmista sentiva come provvidenza e Padre buono, anche nella notte più buia: «Se dovessi camminare in una valle oscura, non temerei alcun male, perché tu sei con me. Il tuo bastone e il tuo vincastro mi danno sicurezza» (23,4). Camminare in una valle durante la notte non era un’ipotetica possibilità, era la condizione da cui si elevava la preghiera. I salmi sono anche una cura delle nostre paure più profonde, la paura della morte. Li preghiamo tutta la vita anche per avere parole diverse e più buone quando le grandi paure busseranno alla porta, la preghiera andrà ad aprire e forse non troverà nessuno (o troverà un amico, che saluterà con il bacio della pace). Grande dono poter cantare nell’anima mentre siamo toccati dalle mani sagge dell’anestesista: se dovessi camminare in una valle oscura... Poterlo fare perché lo si è fatto per tutta la vita. La preghiera è anche una sorta di assicurazione: paghiamo ogni anno un prezzo per avere il premio nel giorno dell’"incidente". Si prega tutta la vita anche per guadagnarsi l’ultimo amen.
Non sappiamo se quel salmo fu scritto a Babilonia, ma certamente l’immagine di YHWH-pastore si rafforza e si sviluppa durante l’esilio. Un popolo esiliato, umiliato e senza tempio, riuscì a vedere l’oasi verdeggiante lungo i fiumi di Babilonia, fu capace di vivere quel deserto come pascolo ristoratore, riuscì a leggere una salvezza in quella sventura, a vedere un Dio-pastore in un Dio sconfitto. La trasformazione degli accampamenti di Babilonia in prati verdi dalle fresche acque fu possibile grazie al talento di quell’antico poeta, ma l’alchimia fu possibile anche perché tra quegli esuli c’erano i profeti. È la profezia il principio attivo che trasforma deserti in oasi, prigionie in liberazioni, il bastone dell’aguzzino nel vincastro del buon pastore. Due profeti che erano in esilio in Babilonia, il Secondo Isaia ed Ezechiele, ci hanno donato le immagini profetiche più nitide del buon pastore, che giungeranno fin dentro i Vangeli, li attraverseranno e feconderanno: «Io stesso condurrò le mie pecore al pascolo e io le farò riposare. Andrò in cerca della pecora perduta e ricondurrò all’ovile quella smarrita, fascerò quella ferita e curerò quella malata, avrò cura della grassa e della forte; le pascerò con giustizia» (Ez 34,11-16). È dell’anonimo profeta esiliato, noto come Secondo (Deutero) Isaia, l’icona più suggestiva del "buon pastore", che tanto ha influenzato l’arte e la pietà popolare: «Porta gli agnellini sul seno e conduce pian piano le pecore madri» (Is 40,11). Senza profeti esiliati quel popolo avrebbe smesso di cantare: «Lungo i fiumi di Babilonia, là sedevamo e piangevamo ricordandoci di Sion. Ai salici di quella terra appendemmo le nostre cetre» (Salmo 137,1-2). La cetra non fu appesa per sempre, l’anima dei poeti non smise di cantare, perché, grazie a quei grandi profeti il popolo esiliato rifece l’esperienza del Dio pastore; sentì che quella notte era un attraversamento in un cammino di salvezza, che era un altro guado notturno da cui sarebbero usciti feriti e benedetti. Nessuna notte uccide l’anima se un profeta ce ne rivela il senso (direzione). Nelle nostre notti la voce dei profeti può giungerci tramite un amico, un verso di un poeta, una parola buona di una madre - tutti i venti soffiano liberamente sulla terra e nell’anima.
La seconda parte del Salmo ci sorprende con un’altra immagine: «Davanti a me tu prepari una mensa sotto gli occhi dei miei nemici; cospargi di olio il mio capo. Il mio calice trabocca» (23,5). Generazioni di studiosi si sono chiesti quale sia il legame tra la prima parte del Salmo (1-4), costruita sull’immagine del pastore, e la seconda che descrive una scena di ospitalità nomade, tanto che alcuni hanno ipotizzato due salmi originariamente autonomi e poi fusi insieme. Una lettura unitaria è possibile. Un uomo arriva nomade e pellegrino nei pressi di un accampamento straniero, assetato e stanco, forse braccato da qualche nemico. E qui fa l’esperienza stupefacente dell’ospitalità: non viene respinto da quella gente diversa, è onorato. Gli viene apparecchiata una mensa, gli viene versato da bere, la sua testa e il suo corpo vengono cosparsi con olii, si spandono profumi che riempiono la tenda. I nemici non osano entrare, vedono che quell’uomo ha trovato protezione. Al termine della festa quell’ospite offre al fuggitivo una scorta per accompagnarlo sicuro nel resto del cammino. Scene non così rare ieri, più rare oggi.
Nel mondo antico l’ospitalità era qualcosa di così vitale da essere considerata in molte culture un atto sacro. Nella Bibbia Dio è il liberatore dalla schiavitù dell’Egitto, ma è anche l’ospite del suo popolo liberato. Come quel popolo nomade e spesso fuggiasco capì qualcosa d’importante di Dio guardando il mestiere del buon pastore, quello stesso salmista, o forse un altro, imparò qualcos’altro dello stesso YHWH facendo l’esperienza dell’accoglienza o osservandola in altri. Avrà intuito che quel loro Dio era pastore ed era ospite. Conosciamo e riconosciamo Dio quando vediamo come il pastore tratta le sue pecore, e scopriamo lo stesso Dio quando vediamo uomini accogliere e onorare altri uomini e donne. Le due metafore si incontrano, arricchiscono e completano l’un l’altra. E arricchiscono anche Dio, perché ogni volta che dall’alto dei suoi cieli osserva un pastore prendersi cura del suo gregge, un ospite onorare un altro essere umano, impara qualcosa di nuovo. Dio, onnipotente e onnisciente, sa cosa è la mitezza e cosa è l’accoglienza, ma per conoscere la mansuetudine ha bisogno della mano del pastore che passa sul dorso dell’agnello (mansueto), e per conoscere l’ospitalità ha bisogno della gioia infinita provata da un pellegrino per un calice offertogli da un ospite sotto la sua tenda. Per queste cose ha avuto bisogno che l’Adam uscisse dall’Eden e diventasse pastore e ospite. La storia è vera per noi, ed è vera per Dio.
Quell’antico salmista capì allora che l’azione del pastore e quella dell’ospite erano molti simili, che qualcosa di importante di Dio si manifestava nel mestiere del pastore e nell’ospite. YHWH è buon pastore ed è buon ospite, e allora per capire la grammatica della cura, nostra e di Dio, non basta guardare il rapporto tra un uomo e i suoi animali (né ieri né oggi), c’è bisogno anche dell’arte dell’ospitalità, guardare a come gli umani si trattano tra di loro. Quando ci ridoneremo, oggi, nuove metafore umane per dire cose nuove e buone su Dio? E se lo stessimo già facendo? Nuovi salmisti, con linguaggi diversi, stanno forse già capendo meglio e di più Dio guardando il lavoro di medici e infermieri, nel vederli arrivare da Paesi lontani per curare i nostri malati, e ospitarli sotto nuove tende. Forse altri staranno capendo qualcosa di nuovo sugli uomini e su Dio mentre fanno l’esperienza dell’ospitalità. Non lo sappiamo, non ci interessa saperlo, non le capiamo perché scritte in lingue nuove; ma se fossimo capaci di intercettarle, ascolteremo anche oggi, tutti i giorni e su tutta la terra, le stesse parole del Salmo: «La tua bontà e lealtà mi scortano tutti i giorni della mia vita, e abiterò nella casa del Signore per lunghissimi anni» (23,6).
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