Quando giunse presso il monte, dove Mosè era salito e aveva contemplato l’eredità di Dio, Geremia salì e trovò un vano a forma di caverna e vi introdusse la tenda, l’arca e l’altare dell’incenso e sbarrò l’ingresso. Alcuni di quelli che lo seguivano tornarono poi per segnare la strada, ma non riuscirono a trovarla
Secondo libro dei Maccabei
La fedeltà è una di quelle parole che hanno la capacità di dire da sole tutto ciò che c’è da dire sulla vita. Una esistenza è fatta di tante parole e di molte cose, ma se dovessimo sceglierne una sola la fedeltà sarebbe una candidata molto forte. La fedeltà è quasi tutto; la fedeltà, forse, è tutto. Fedeltà ai patti fondativi della nostra esistenza, all’alleanza coniugale, alla nostra professione, alle amicizie, alla voce che un giorno ci ha chiamato facendoci partire per il viaggio più grande. È la fedeltà che riscalda il cuore negli inverni, che consola l’anima quando passa tutto il resto, che ci fa pronunciare il nostro nome senza vergognarci. È l’eredità più bella che lasciamo ai nostri figli.
Anche se non riusciamo a vederlo né tantomeno a dirlo, il mondo è pieno di fedeltà. Non la vediamo, o non la vediamo abbastanza, perché la sua parte più preziosa è invisibile. Si vede l’infedeltà, non la fedeltà, perché si svolge e si compie quando potremmo essere infedeli e non lo siamo, quando avremmo "l’incentivo" a tradire e invece decidiamo di restare fedeli a un patto; quando potremmo non tornare più e invece torniamo, fedeli, a casa. E non lo diciamo a nessuno, perché se lo dicessimo perderebbe il suo incanto.
La Bibbia, però, con la sua infinità sapienza umana, ci parla soprattutto di infedeltà: «Alza gli occhi sui colli e osserva: dove non sei stata disonorata? Tu sedevi sulle vie aspettandoli... Così hai contaminato la terra con la tua impudicizia e perversità» (Geremia 3,2). E se la Bibbia ci parla delle infedeltà, allora dobbiamo saper guardare più in profondità dentro il binomio fedeltà-infedeltà, perché forse è più complesso di quanto pensiamo. La Bibbia non ha paura di partire dall’uomo qual è, e da lì chiamarlo per nome: «Ritorna, Israele ribelle. Io non guardo più a voi con rancore, ma sono benevolo» (3,12).
Molte delle esperienze che ci appaiono e viviamo come infedeltà sono misteriosi esercizi per imparare l’arte del vivere. Ci sono molte infedeltà dentro ciò che appare fedeltà, e qualche fedeltà nei tradimenti. Una delle grazie più sublimi della vita è riuscire, un inatteso giorno, a trovare le proprie infedeltà sedute accanto a noi in cucina, finalmente salutarle come altri compagni di viaggio e poi cenare e fare festa insieme.
L’incontro di due (o più) fedeltà si chiama alleanza o patto. Quando la fedeltà si svolge all’interno un patto-alleanza diventa più forte, perché l’alleanza può vivere e crescere anche se una delle parti diventa infedele. L’alleanza è una corda, una fides (cioè una fede-fiducia), che lega le persone tra di loro. È la corda nelle scalate delle pareti in cordata. Se uno inciampa o molla non cade e non sprofonda finché la corda regge e finché c’è qualcuno ancora ben ancorato alla roccia. Ci sono famiglie, comunità, imprese, salvate perché almeno una persona ha tenuto, perché uno ha creduto quando nessuno credeva più in quella storia d’amore, perché ha tenuto quando tutti gli altri mollavano. Non c’è forse dono più grande di poter scalare la vetta della vita in cordata con persone più fedeli di noi. Si può stare per anni, per decenni, in condizione di infedeltà, ma non perdersi perché un’altra, un altro, riesce a non mollare, a non mollarci. L’infedeltà diventa invece un precipitare nel burrone quando ci si stacca dalla cordata per continuare la scalata in solitaria. Finché restiamo dentro una storia di alleanza non possiamo sapere quante volte ci salviamo perché qualcuno accanto a noi ci sta tenendo. Anche quando non ce ne accorgiamo o pensiamo che quella corda sia ormai solo un laccio che ci incatena al ceppo di una prigione. Chi vive e supera le grandi crisi restando dentro un’alleanza non sa quante volte non si è sfracellato in un precipizio solo perché qualcuno è stato fedele anche per lui – magari pregando, o accettando docilmente quel dolore. Poche persone hanno il dono di scoprire nel corso della vita i salvataggi che non aveva visto mentre si compivano – che sono sempre più di quelli che riusciamo a conoscere e riconoscere.
Ma per la sua stessa natura, l’alleanza e i patti sono esperienze tragiche, perché per quanto riusciamo a tenere e non mollare la corda, l’altro può sempre reciderla e lasciarsi cadere giù. O perché, altre volte, il peso delle infedeltà degli altri è talmente grave che tira giù anche noi, se non abbiamo la lucidità di capire qual è l’ultimo attimo utile per tagliare la corda. Si soffre, si soffre molto, per le proprie infedeltà, e si soffre, si soffre molto, anche per le infedeltà delle persone alle quali ci siamo legati. È questa una ragione profonda del vero e proprio culto che la nostra civiltà ha per i contratti, che sono molto più leggeri e tenui dei patti e delle alleanze: si tagliano facilmente, ma non ci salvano dai precipizi della vita.
Anche per la fedeltà vale il grande principio profetico del resto. La salvezza dalle infedeltà si può compiere finché rimane vivo in noi un resto, una piccola parte, un germoglio, un figlio: «Vi prenderò uno da ogni città e due da ciascuna famiglia e vi condurrò a Sion» (3,14). Una storia di alleanza può continuare se durante gli allontanamenti siamo riusciti a restare fedeli a qualcosa di vero, perché almeno una cosa l’abbiamo fatta bene e con fedeltà, fino alla fine. Ci sono persone che si sono salvate dentro situazioni di infedeltà proprie o di coloro cui erano legati perché sono riuscite a salvare dentro di sé un resto vivo, perché hanno continuato per decenni a fare bene una sola cosa: un lavoro, la cura di un rapporto, di un orto, perché hanno continuato a recitare bene e fedelmente l’unica preghiera di casa che ancora ricordavano. Si può salvare una vocazione e una intera vita anche curando bene una pianta sul balcone di casa, che diventa la corda che ci impedisce di sprofondare.
Dopo le infedeltà solo un resto ritorna. Dopo ogni tradimento resta un popolo sempre più piccolo, interi brani di vita nostra e degli altri non tornano più. Ma la terra promessa può ancora essere raggiunta se almeno uno rimane vivo e fedele, se un brano di prato non è andato distrutto. Come le piante. Al termine della corsa non tutte le bellezze e non tutte le speranze della giovinezza giungeranno a destinazione; molte cose belle e buone restano lungo la strada intrattenute da altro, da altri. Qualche volta è soltanto uno a finire la corsa, soltanto una perla della dote donataci dalla prima voce giunge a destinazione; ma ciò che veramente conta è che un resto, che qualcosa di noi sia rimasto fedele al primo patto. Da giovani volevamo una vita pura, coerente, religiosa, mite, povera. Da grandi ci ritroviamo nell’impurità, nell’incoerenza, con una fede debolissima. Ma se siamo rimasti veramente poveri, o se siamo riusciti a rimanere miti, entriamo nella terra di Canaan, o quantomeno la vediamo da lontano – e poi, qualche volta, scopriamo che in quella povertà alla quale eravamo rimasti fedeli c’erano anche tutti gli altri ideali e le altre bellezze che cercavamo da giovani e che non vedevamo più, perché non avevamo capito che era solo nella "bruttezza" che, da adulti, le potevamo trovare.
Nella Bibbia, poi, l’Alleanza è legata all’immagine dell’arca: l’arca dell’alleanza. Mosè (Esodo, 25) aveva ricevuto l’ordine da Dio di costruirla, per custodirci le due Tavole della legge, insieme, forse, a un vaso d’oro contenente la manna e al bastone fiorito di Aronne (Lettera agli Ebrei, 9). L’arca somigliava a oggetti babilonesi e soprattutto egiziani, che erano soliti costruire casse per custodire i loro dèi e idoli, che portavano in processione durante le grandi feste. L’arca simboleggiava l’Alleanza per la presenza in essa delle Tavole, il sacramento del patto stipulato da YHWH con Mosè sul Sinai. Era il tesoro più grande del popolo.
Anche in Geremia ritroviamo l’arca all’interno della profezia del ritorno di Israele, finalmente fedele: «Quando poi vi sarete moltiplicati e sarete stati fecondi nel paese, in quei giorni non si parlerà più dell’ "Arca dell’Alleanza" di YWHW: non verrà più in mente a nessuno e nessuno se ne ricorderà, non sarà rimpianta né rifatta» (3,16).
Non si parlerà più dell’arca, non verrà né rimpianta né ricostruita. Dopo la distruzione del tempio di Salomone per opera dei babilonesi (587), dell’arca non si hanno più notizie certe (secondo alcune tradizioni è andata distrutta, secondo altre è ancora sepolta sotto i resti del tempio di Gerusalemme, altre la credono in Etiopia, e in molti altri luoghi). Geremia non rimpiange l’arca, forse perché sa che anche l’arca, realizzata su comando di Dio, può diventare un idolo. I profeti sanno che l’idolatria può toccare anche il cuore della fede vera. Se gli uomini hanno la tendenza a far diventare idolo ciò che non è Dio ancora più radicalmente cercano di trasformare Dio in idolo da consumare. Le idolatrie senza ritorno non sono quelle di Baal ma quelle di Dio. Se non ci fossero i profeti (o se non li ascoltiamo) i tabernacoli delle nostre chiese diventerebbero dei totem, e Gesù il nostro idolo più grande.
Dopo la distruzione di Gerusalemme, nel secondo tempio il posto che era stato dell’arca fu preso da una semplice pietra, che diceva un vuoto, una assenza. Finché i templi e le chiese sanno custodire l’assenza di Dio, in noi può restare vivo il suo desiderio e il suo sogno. E, forse, un giorno lo potremo incontrare mentre pascoliamo un gregge, mentre raccogliamo le reti, quando camminiamo, delusi, verso un villaggio. O quando, tornati finalmente a casa, lo riconosciamo nel volto di chi, fedele, ci stava ancora aspettando.
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