giovedì 26 marzo 2015
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​I tre arresti compiuti dalla Digos di Brescia in relazione a una cellula di reclutamento di miliziani pro-Is attiva in Italia (tra cui un giovane di origine marocchina autore di un vademecum di propaganda del Califfato di 64 pagine) sono un segnale eloquente del primo effetto dell’applicazione dei nuovi poteri conferiti sia all’intelligence sia alle forze dell’ordine contenuti nel recente decreto legge antiterrorismo. Il risultato è più che visibile: l’intreccio fra indagini ambientali, intercettazioni e screening dei dati sensibili ha enormemente facilitato il lavoro degli investigatori, confermando – come se non fosse già abbastanza ovvio – che le guerre, nessuna esclusa e quella con l’Is non fa eccezione, si vincono non tanto con le armi, i droni, le fanterie, quanto con l’analisi delle informazioni. E l’arresto, proprio ieri, in Tunisia del leader del gruppo di fuoco che la scorsa settimana ha seminato strage al museo del Bardo arriva come ulteriore conferma dell’efficacia di questa strategia.La guerra asimmetrica che il Califfato ha scatenato nel Maghreb e che punta a fare proseliti in ogni dove, si giova di un bombardamento mediatico sui siti jihadisti e sui social network che i media di tutto il mondo regolarmente amplificano e diffondono, facendo così – in nome della libertà di informare – il gioco stesso dell’Is. Basterebbe, sostengono in molti, oscurare regolarmente questi siti internet, tracciare sistematicamente conversazioni, messaggi, email, ogni tipo di dato telematico per risalire la filiera del terrore e tagliare l’erba sotto i piedi agli strateghi della propaganda del Califfato (non a caso l’ultima relazione dei servizi segreti al Parlamento parla di cyber-jihad e il testo approvato dal Consiglio dei ministri istituisce una "lista nera" presso il Ministero dell’Interno dei siti che sostengono il terrorismo e potenzia la possibilità di oscuramento su disposizione dell’autorità giudiziaria). Basterebbe, aggiungono altri, esigere di conoscere preventivamente il testo del sermone che gli imam pronunciano ogni venerdì nelle moschee e assicurarsi che venga rispettato e non contenga proclami e incitamenti alla violenza nei confronti degli "infedeli". Basterebbe impedire il ritorno in patria dei foreign fighters che sono andati ad addestrarsi in Siria, in Libia, nello Yemen. I risultati, non ci sono dubbi, da questo punto di vista non mancherebbero e gli arresti di ieri ne sono la conferma e incoraggiano l’Italia a proseguire su questa via.Ma c’è un problema. Le democrazie occidentali sono e vogliono rimanere democrazie. Un pizzico di libertà temporaneamente ceduta alle necessità dell’intelligence è un male socialmente sopportabile purché comporti un cambiamento episodico e non strutturale.È già accaduto negli anni di piombo nei giorni del sequestro Moro: il governo approvò il decreto antiterrorismo che prevedeva trent’anni di carcere per i terroristi, l’ergastolo in caso di morte dell’ostaggio e assegnava alla polizia la facoltà di fermare, interrogare e ascoltare le telefonate sospette. Ma il decreto che domani approda in aula alla Camera desta seria preoccupazione al Garante della Privacy e ai molti che ritengono che l’equilibrio fra sicurezza e privacy verrebbe gravemente compromesso. Il dibattito è aperto.Giova tuttavia ricordare come la condizione di estrema vulnerabilità emotiva di migliaia di giovani, che consente al Califfato di conquistarsi piccoli eserciti di proseliti attraverso un’accurata campagna di indottrinamento, affondi le sue radici anche nella trascuratezza con cui per molti anni l’Europa ha agito nei confronti della moltitudine di immigrati arabi e islamici. «Non è bello essere arabo di questi tempi: il mondo arabo è la zona del pianeta dove oggi l’uomo ha minori opportunità. A maggior ragione la donna», scriveva profeticamente lo storico libanese Samir Kassir nel suo "L’infelicità araba". «Una crisi di convivenza è diventata la tragedia che assedia e divora il cuore dell’Europa», denuncia a sua volta Alain Finkielkraut nel suo "L’identità infelice". Come dire: quel cuore rabbioso, buio, emarginato e pieno di odio che di tanto in tanto esplode nella follia jihadista è in parte da ricondurre all’incapacità occidentale di organizzare una società più inclusiva e meno chiusa nei propri privilegi e nelle proprie paure. Ma forse è troppo tardi per considerazioni di questa natura. Ora si debbono gestire altre emergenze. Con efficacia ed equilibrio. Cioè con i mezzi necessari, per il tempo necessario.
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