Esiste una oscenità che non ha a che fare con la perversione sessuale. È qualcosa di molto più profondo e insondabile. Esiste una oscenità che è piacere nel vedere soffrire l’altro, un sadismo che cela conflitti profondi in chi ne è attore e vittima. Ha la sua lontanissima origine nel sacrificio rituale, con la differenza che il capro espiatorio muore per una legge stabilità dalla comunità intera, e anzi la sua morte deve servire a placare la vendetta della divinità. Il caso di Roma dove due studenti uccidono un ragazzo più giovane facendolo prima soffrire, seviziandolo e infine guardandolo mentre agonizza con un coltello piantato nel petto, può far pensare a un caso di follia indotta da eccessi di droga, di sessualità estrema, di noia che spinge alla ricerca di emozioni forti, sempre più forti. In realtà, questo caso mette alla prova (una delle tante ormai nella cronaca quotidiana) le nostre categorie per giudicare l’orrore. Ma rispetto al delitto efferato, anche il più terribile (quello, per esempio, di una madre che uccide i suoi bambini: Medea ne ha espresso tutte le sfaccettature), al delitto dei due ragazzi si aggiunge un elemento morboso: il piacere di guardare la morte di qualcuno. Non è nuovo, in sé. Esiste un genere di film pornografici “amatoriali” chiamati
snuff dove uno degli attori soffre e poi muore davanti alla cinepresa, ma non è finzione, è l’orrenda verità. Qui siamo sulla soglia limite che si è manifestata anche giovedì scorso. Uno dei due ragazzi avrebbe dichiarato poi che lui e l’altro compagno nel delitto, imbottiti di droga e alcol, hanno inflitto ogni sorta di violenza e infine la morte, per «vedere che effetto fa».
Nessuna generalizzazione può essere fatta, ovviamente, ma è chiaro che si tratta di qualcosa che, nella logica, è simile agli snuff: uccidere per il piacere voyeuristico di qualcuno. È qui che si svela il punto in comune con la normale pornografia: il voyeurismo che riduce l’altro a un’immagine, a un film in diretta che finisce col sacrificio reale della vittima, per il proprio puro godimento. Droga e alcol posso aver rotto ogni inibizione nei due ragazzi, ma è certo che il rilascio dei freni è avvenuto in chi già cercava qualcosa di estremo. Perché in un angolo oscuro della sua mente, lo desiderava. Mentre negli altri, in noi, produce disgusto. È una soglia che implica una “diversità” umana, non anzitutto sessuale. Disgusto e desiderio, i due opposti che ci fanno riconoscere ciò che è osceno. Originariamente, la parola non aveva il significato che siamo soliti attribuirgli oggi: laido, orrendo, contro il pudore. Aveva, piuttosto, il senso di qualcosa che “porta male”, forse il sintomo che fa venire alla luce un malessere che riguarda tutti, riguarda il mondo che vogliamo e che stiamo creando. Sarà casuale che nelle società dove i nuovi media hanno maggior sviluppo proliferino pratiche esibizioniste, narcisiste, mitomanie di ogni tipo; che la pornografia sia in crescita e che a tutto questo corrisponda un voyeurismo sempre più diffuso? L’altro diventa lo strumento di un piacere che non si realizza mai, e infatti sposta sempre più in là il limite dell’eccesso.
Uccidere un ragazzo «per vedere che effetto fa» significa aver superato questo limite che separa finzione e realtà. Essere investiti da questo teatro della crudeltà, in cui anche la vittima inconsapevolmente si è fatta attirare forse col miraggio dei soldi o forse per banale curiosità, non può non interrogarci. Per non arrivare alla pornografia della morte bisogna credere che il corpo dell’altro non è soltanto materia animata, è sacro perché inseparabile dalla persona che è. Il filosofo Max Scheler scrisse che il sentimento del pudore nasce dalla caduta originaria: il pudore è il velo protettivo sulla nostra nudità. Violare quella soglia è, dice Scheler, una de-animazione dell’individuo. E per poterlo guardare morire, i due ragazzi di Roma hanno prima dovuto privare quel loro più giovane amico del suo velo protettivo. Sono tante le ombre che si addensano in questo quadro.