La storia di Stefano Cucchi ci ha riempito di passione fin dalle prime battute. Ci ha turbato, e a tratti indignato. Ci ha fatto spettatori di inchieste, processi, perizie, sentenze. Ci ha fatto lettori pensosi e dubitosi d’una ricerca delusa, a dar senso e rimedio possibile all’assurdo di una morte crudele di un uomo in custodia e in ospedale. Non ci muove la voglia di appendere ad ogni costo qualcuno al cappio degli assassini, per uscire dal labirinto; nelle torbide oscurità dei sentieri del male non servono previe certezze a far da lanterna, ci vogliono prove.
Ma sentire oggi dire che Stefano Cucchi è morto per improvvisa epilessia, e che le lesioni (semmai inferte) non c’entrano, ci dà quasi un nuovo sgomento se ciò volesse dire che tutto è stato chiaro, liscio e ordinario, e che non c’è altro pianto se non per quella maledetta accidentale sventura; e che le parole di dolore e di rivolta e di invocazione sono state insensate. Intanto, non è così: il collegio dei periti nominati dal giudice dell’ennesimo processo ancora aperto su quella morte, contro tre carabinieri accusati del pestaggio e altri due di falsa testimonianza, dopo l’assoluzione delle guardie carcerarie e quella dei medici dell’ospedale (quattro gradi di giudizio) non dice così. Dice che l’epilessia è una delle due ipotesi valutabili; l’altra è la bradicardia da riflesso vagale originato da ritenzione in vescica neurogenica prodotta da frattura traumatica della vertebra S4.
Tradotto in parole povere, un guaio collegato al fatto che all’ingresso in ospedale Stefano aveva la colonna spezzata. Spezzata per caduta da 'colluttazione' o per caduta accidentale, i periti non possono sapere. Però dicono che la vertebra rotta non è ciò che l’ha fatto morire; la dilatazione fatale non vi sarebbe stata se il paziente fosse stato 'adeguatamente sorvegliato' in ospedale. E così tutto ritorna nel crogiuolo delle incerte cause e concause e accidenti e insufficienze, cioè nel turbine che ha centrifugato via dall’imbuto delle colpe i personaggi di questa storia, a turno indagati e processati.
Non è finita, perché anche sugli ultimi della serie pende il giudizio, e le perizie non prenotano sentenze; ma la radicale impossibilità di certezza diagnostica sembra lo sfiato ultimo che prelude alla fine. E noi torneremo al dubbio doloroso che impedisce di archiviare il caso Cucchi tra le storie giudiziarie irrisolte. Per noi non si tratta di reclamare condanne di qualcuno purchessia, per placarci e rinforzare verdetti d’opinione. Ma non dite che finisce qui, se la vicenda della morte di Stefano resta intrecciata a profili di percosse e di incurie, di cui ci restano in memoria emozioni profonde.
E crudele ritardo, pensando alla mancanza di colloquio con familiari e difensori, mentre il corpo si infragiliva a morte. Non può finir qui: è nei profili civili o incivili dei 'sistemi' di cui ha bisogno il villaggio umano (sicurezza e sanità in cima a tutto) che si annidano colpe e virtù, eroismi e vergogne. Sono i processi della coscienza l’ultima occasione di verità e di conversione; quelli che separano la retorica sulla nobiltà delle funzioni (giustizia, sanità, sicurezza) dal fallimento di scopo; perché non soltanto nella infedeltà, ma foss’anche solo nell’incapacità di salvare una vita affidata e posseduta e di preservarla da quelle lesioni e da quella torturante fine c’è lo scacco fatale di quelle medesime funzioni.