Ansa
L’avventura di essere padre affidatario, una delle esperienze più belle (e impegnative) della mia vita, è iniziata grazie a mia moglie. Da fidanzati, appena abbiamo cominciato a parlare di matrimonio e di famiglia, lei ha messo subito le carte in tavola: «Io desidero una famiglia aperta, una casa accogliente, con le porte spalancate al mondo». Era decisamente più convinta di me: è sempre stata aperta a grandi orizzonti e mi ha sempre aiutato ad allargare lo sguardo, a togliere il freno a mano.
Pochi mesi dopo il matrimonio, mia moglie torna alla carica e mi propone un percorso di affido. Decido di fidarmi, di buttarmi in questa avventura: diamo così la disponibilità a diventare genitori affidatari. Dei colloqui preliminari ricordo una stanza in un palazzo di Milano affacciata su un cielo grigio d’inverno, il sorriso gentile di una assistente sociale, la voce roca e calda di una psicologa. Ci si apre un mondo molto variegato e poco conosciuto. Molti confondono l’affido con l’adozione, ma l’affido ha forme più varie, più flessibili: è un universo di possibilità, nel quale possono mettersi in gioco non solo le persone sposate, ma anche i single e i conviventi. Scopriamo quanto bisogno c’è: moltissimi minori attendono, tuttora invano, qualcuno che li accolga in una relazione che li aiuti a crescere, in uno spazio protetto e sereno.
Tutto questo ci motiva sempre di più. Finito il percorso, ci dicono che potremmo essere idonei. Ma, prima, ci lanciano una sfida: «Vi chiediamo di partecipare a un incontro di condivisione di un gruppo di famiglie affidatarie, così ascoltate un po’ di vita reale. Dopo, se ancora ve la sentite, ne riparliamo ». Ovviamente accettiamo la proposta. Arriviamo all’incontro sorridenti; io, devo ammetterlo, pure un po’ spavaldo: nelle chiacchierate con la psicologa e l’assistente sociale avevo superato molti dubbi, avevo colto la bellezza di ciò a cui ci stavamo aprendo; insomma, avevo gettato il cuore oltre l’ostacolo. Per questo entro in quella stanza con una punta di autocompiacimento: siamo la giovane coppia idealista, pronta a cambiare almeno un pezzetto di mondo.
Non immagino che la realtà sta per investirmi come una valanga. Le coppie sono in cerchio, insieme a una psicologa e a un assistente sociale che ci salutano gentili e ci presentano al resto del gruppo. Poi parte la condivisione. Inizia un papà: «Con Valentino va bene in questo periodo. Sembra più tranquillo. Ha anche iniziato a frequentare la scuola; del resto ha quasi diciotto anni e ne ha già persi due. Forse ha capito che non può più buttare via il suo tempo. Certo, entra spesso in ritardo, perché la mattina non ce la fa ad alzarsi, dato che quando esce non torna prima delle due di notte. A volta arriva ubriaco; non troppo spesso, per fortuna. Però, almeno, crediamo che abbia smesso con la droga».
Rimango di sasso. Penso di non aver capito bene. Quel padre parla con estrema naturalezza, tranquillo; mi sembra incredibile che possa dire cose così pesanti. Dopo di lui tocca a una mamma raccontare: «Stefania fa qualche piccolo passo. A scuola fa sempre molta fatica, soprattutto con la matematica, ma un minimo di impegno ce lo mette: ha iniziato la terza superiore dignitosamente. La bambina cresce, ha quasi un anno. Sta bene. È adorabile». «La bambina?». La domanda scappa fuori a mia moglie. «Sì, Stefania ha una figlia. È rimasta incinta in seconda superiore, mentre stava col suo ex. Ma lui se n’è andato, non si vedono e non si sentono più. Per certi versi è meglio così, non era uno molto raccomandabile. La piccola Sonia sta crescendo con noi. È la nostra nipotina».
La mia spavalderia iniziale comincia a scomparire. La certezza di voler prendere un bambino in affido comincia a vacillare. Non mi sento in grado di gestire situazioni così complesse, non sono all’altezza di simili sfide. Le due storie successive sono più ordinarie: una bambina delle elementari con qualche lieve difficoltà e un ragazzo di prima media che sembra ancora molto più un bambino che un adolescente. Poi interviene la mamma di Alessandro e, con le sue parole, mi stronca definitivamente.
La mamma affidataria di Alessandro ha gli occhi pieni di luce: quando ti fissa, ne percepisci il misterioso brillio. Parla quasi a bassa voce, composta, pacata. Sembra timida, ma percepisci in lei una forza antica, misteriosa. Ci racconta di Alessandro, che fa la terza elementare. Alessandro, che ha un ritardo cognitivo e molti problemi nel gestire la sua emotività. Alessandro che, da piccolo, ha subito un abuso in famiglia.
Ascolto e mi manca il fiato. Sono parole intollerabili, che si ficcano in testa come chiodi. Vorrei scappare via, serrare gli occhi di fronte a tanto dolore innocente, cancellarlo. Ma la mamma affidataria di Alessandro continua inesorabile: «In generale le cose vanno bene. Certo, la mattina, quando deve andare a scuola, Ale è sempre agitato: fa colazione correndo qua e là per la cucina, con in mano latte e biscotti, e per terra si crea un disastro: dobbiamo pulire tutte le volte. Però, nel corso della giornata, le cose vanno meglio. Quando vede il papà è un vero dramma, perché tutto ciò che ha subito torna fuori. Lo incontra insieme agli assistenti sociali, in uno spazio protetto, ma nei giorni successivi le conseguenze si sentono: Alessandro si nasconde sotto il letto per ore, torna a farsi la pipì addosso. In quei giorni devo spesso uscire dal lavoro e portargli il cambio a scuola».
Mezz’ora dopo cammino, insieme a mia moglie, verso l’auto parcheggiata. La storia di Alessandro mi ha distrutto definitivamente, molto più delle altre due. Per questo sono categorico: «Io non ce la faccio. Non prenderò mai un bambino in affido, dopo quello che ho sentito stasera. È un’impresa più grande di me. È troppo». Mia moglie tiene la testa bassa, non risponde niente. Apro la macchina. La mano è già sulla maniglia della portiera.
«Ragazzi!». Una voce ci blocca alle spalle. Ci voltiamo. È la mamma di Alessandro, proprio sotto la luce di un lampione. I suoi occhi continuano a brillare, la sua voce è dura come roccia e, allo stesso tempo dolce come una ninna nanna: «Volevo chiedervi scusa», dice. Non capiamo. Lei si spiega: «Scusate se quello che ho detto vi ha spaventato. Mi permetto di darvi un consiglio: dite di sì, prendete un bambino in affido. Io ho altri due figli più grandi, nati dalla mia pancia, ma essere la mamma di Ale, con tutti i problemi che ci sono, è il dono più bello che nella mia vita mi sia capitato. Non so spiegarvi perché, non so darvi delle motivazioni razionali. Ma è così, credetemi ». Le crediamo. Il brillio dei suoi occhi, la sicurezza della sua voce sono garanzie che entrano dentro, rivelando un’affidabilità assoluta.
Lo abbiamo fatto: abbiamo continuato il percorso. Abbiamo preso un bambino in affido, un bambino che adesso è un uomo: l’esperienza più devastante, spiazzante, destabilizzante, coinvolgente e sfidante della nostra vita. L’esperienza più bella. Non so se l’avremmo fatto senza la mamma di Ale, che per noi è stata una figura educativa fondamentale, seppur nello spazio di una sera. La mamma di Ale non ci ha nascosto le difficoltà, non ha mascherato il dolore né i problemi, ma ci ha testimoniato una bellezza più profonda, sempre possibile, che spinge a compromettere la vita e, allo stesso tempo, riempirla di un significato nuovo. P er me, insegnante, quella mamma è stata una grande insegnante. Mi ha ricordato che la vita è quella cosa strana che più provi a tenere per te, più ti sfugge dalle dita. Ma, se scegli di donarla, di comprometterti per gli altri, diventa misteriosamente degna di essere vissuta e, nel suo modo complicato, felice. Mi pare proprio che sia questo uno dei compiti fondamentali della scuola: educare alla logica del dono, mostrare l’inconsistenza della logica del possesso spesso imperante. Comprendere ciò, per gli alunni, può essere la strada migliore per diventare, un domani, cittadini. Cittadini nel senso più alto del termine.
Insegnante e scrittore