«Tra i 12 e i 15 anni non c’è da stupirsi se, soprattutto in gruppo, si manifesta quel machismo tossico che, per affermare la propria identità in divenire, non si fa scrupoli ad accanirsi contro la diversità sessuale e ricorre al linguaggio più detestabile per irridere e offendere». Antonio Prunas, docente di psicologia all’Università Bicocca di Milano, dove dirige anche il corso di perfezionamento in consulenza sessuologica, riflette sul significato del recente episodio di intolleranza e di maleducazione verificatosi durante la proiezione del film Il ragazzo dai pantaloni rosa alla Festa del Cinema di Roma davanti a un gruppo di ragazzi delle scuole romane. Ironia, schiamazzi, parole volgari e offensive che hanno riacceso il problema del bullismo omofobo, ma anche quello relativo alla capacità – o incapacità - degli adulti di far comprendere il significato della diversità in una prospettiva di rispetto e di accoglienza. Tanto che in una scuola media di Treviso, che aveva programmato la visione del film, i genitori – nel timore che gli argomenti non fossero adeguati a ragazzini di 10-12 anni – hanno chiesto e ottenuto di poter vedere il film prima dei loro figli, insieme agli insegnanti.
Una preoccupazione legittima, se motivata dal desiderio di approfondire un argomento così complesso per preparare al meglio i ragazzi. Certo, in una società dove tutto sembra consentito e digerito, può fare pensare che temi come l’orientamento sessuale e l’identità di genere suscitino ancora reazioni di bullismo omofobo nei ragazzini, ma anche imbarazzo e disorientamento tra adulti e insegnanti. «Sono problemi diversi che vanno affrontati senza fare confusione. Credo che il 90 per cento di quei ragazzini, se presi singolarmente, si mostrerebbe tollerante e accogliente verso i coetanei Lgbt, anche perché oggi si tratta di un aspetto che non è più tabù. Avere un amico gay o un conoscente transgender è diventata la normalità. Ma, come dicevo, l’effetto branco scatena gli istinti peggiori».
Diverso il discorso per i genitori. E qui occorre allargare un po’ il discorso. Prunas non è solo psicologo e psicoterapeuta esperto proprio di questioni lgbt ma all’Università Bicocca si occupa, tra l’altro, del colloquio di accoglienza per gli studenti transgender che desiderano vedersi riconosciuta la carriera alias. Sono sempre più numerosi e, anche se non ci sono statistiche specifiche, vale anche per l’Italia quanto calcolato negli Stati Uniti a proposito della consistenza della popolazione lgbt tra i 15 e i 30 anni, passata dall’1,25 di dieci anni fa al 19,7 per cento del 2022, data dell’ultima rilevazione.
E se questi numeri sono credibili non deve neppure stupire che ormai circa 400 scuole superiori in Italia e quasi tutte le circa 60 università del nostro Paese abbiano deciso di approvare un regolamento per permettere agli studenti che non si identificano con il genere assegnato alla nascita, di assumere un nome diverso rispetto a quello registrato all’anagrafe, un nome nuovo, spesso neutro, che non si possa identificare né con il maschile né con il femminile. Appunto la carriera alias. Perché è proprio questo che desiderano i ragazzi transgender. Prendere le distanze da un’identità nella quale non si riconoscono e riflettere con calma sulla propria condizione. Il colloquio d’accoglienza all’Università Bicocca – come nella maggior parte delle altre Università - serve per verificare queste situazioni e permettere loro di “uscire allo scoperto”, assumendo un nome che sia un segnale chiaro di voler attraversare il guado.
Sarebbe il caso di chiedersi se la crescita significativa delle richieste di carriere alias negli ultimi anni non possa essere legata da una parte a una sorta di contagio sociale e, dall’altra, al desiderio di assumere una posizione “di moda” che regala un’appartenenza alternativa, segno di rottura con un mondo considerato, soprattutto nell’ambito delle relazioni, ingessato e tradizionalista. Ma il professor Prunas spiega perché sia l’una che l’altra ipotesi vanno considerate fuori strada. «Ci sono ricerche importanti che dimostrano come il contagio sociale in questi casi non abbia influenza, mentre va considerato come per questi ragazzi uscire allo scoperto non sia mai scelta senza implicazioni. Siamo in una società in cui la diversità può ancora rappresentare un ostacolo piuttosto che un vantaggio. Nessuno, insomma, lo vuole fare per scherzo, o come scelta provocatoria. Anzi, si tratta di una decisione che richiede una buona dose di consapevolezza e di coraggio».
Nella maggior parte dei casi, inoltre, il colloquio di accoglienza serve a prendere atto di una situazione già tracciata sia in ambito sociale, nel rapporto con amici e compagni, sia per quanto riguarda il percorso di transizione, con percorsi medici e psicologici già definiti. Non significa che tutti i ragazzi desiderosi di vedersi riconosciuta la carriera alias desiderino intraprendere un percorso medico di transizione, ma che il tema dell’identità di genere, con tutti gli interrogativi connessi, è diventato oggi motivo di riflessione per la maggior parte dei giovani e dei giovanissimi. E non bisogna gridare allo scandalo, appellarsi a inesistenti ideologie gender che confondono e disorientano, oppure rimpiangere i tempi in cui tutto era definito in modo inappellabile, o bianco o nero.
«Ai genitori – riprende Prunas - dico che l’opportunità che hanno oggi i ragazzi di riflettere sulla propria identità senza condizionamenti e senza stereotipi è un grande momento di libertà e dobbiamo essere grati a un clima culturale che permette di assumere decisioni un tempo impensabili. Non si tratta di tendenze nuove che corrompono e confondono i ragazzi, ma dell’emersione di una realtà che è sempre esistita ma che veniva tacitata sotto valanghe di conformismo ». Ma nascondere e reprimere una tendenza che non nasce da un capriccio né da un momento di confusione, ma che è radicata profondamente nella personalità per una somma di fattori complessi – ormonali, genetici, psicologici, esperienziali e tanto altro ancora – come ormai attestano tutti gi studi più seri, significa condannare un giovane a un’esistenza insoddisfacente.
«Per i genitori ammettere queste situazioni non è mai facile. Quando incontro mamme e papà che desiderano parlarmi di un figlio alle prese con la ricerca di un’identità di genere diversa rispetto al dato biologico, mi parlano subito di condizionamenti, di situazioni che a loro parere fanno pensare al plagio, ma sono rischi quasi inesistenti. E così spiego loro di considerare con serenità il fatto che un figlio o una figlia possa manifestare un orientamento omosessuale, oppure che voglia mettere in discussione la propria identità. Si può farlo senza drammi. E, anzi, il fatto che sia tra le possibilità concesse da un nuovo clima di accettazione sociale e di apertura culturale, va considerato un fatto positivo».
Ecco perché educare all’affettività e alla sessualità non vuol dire trasmettere schemi rigidi di comportamento oppure formule desunte da modelli ornai inaccettabili, ma offrire ai ragazzi la possibilità di riflettere in modo inclusivo e sereno su un dato realtà che va assunto per quello che è, senza caricarlo di condanne morali e senza pretendere di farlo rientrare in uno schema antropologico a senso unico.
Quando ci chiediamo le ragioni di tanti episodi di bullismo omofobico, come quello capitato qualche giorno fa, alla proiezione nel film Il ragazzo dai pantaloni rosa, dovremmo capire se quei ragazzi hanno avuto la fortuna di trovare adulti capaci di accompagnare la loro crescita in un clima di apertura e di tolleranza, senza quei pesanti condizionamenti, anche solo impliciti, che parlano di maschilismo opprimente e arrogante, e che sono alla base di ogni violenza di genere.