Due statuette di Harris e Trump - Ansa
Tagli alle tasse o più spesa pubblica? Le due visioni inconciliabili
Scriveva Mark Twain che gli Stati Uniti hanno «il miglior governo che i soldi possano comprare». C’è qualcuno che oggi non gli darebbe ragione, davanti alla più costosa campagna elettorale della storia americana? Trump e Harris, Harris e Trump. Uno rilancia tagli alle tasse alle imprese e promette deregulation e dazi commerciali; l’altra annuncia aumento della spesa pubblica, più imposte sulle plusvalenze e una maggiorazione dell’aliquota massima sul reddito. Uno può contare sul sostegno pubblico dell’uomo più ricco del mondo, Elon Musk, e sul big business che va dall’energia fossile al tabacco alle armi; l’altra ha dalla sua le élite della Silicon Valley e i tradizionali salotti buoni democratici della East Coast newyorchese. Trump e Harris, due mondi allo specchio, due Americhe senza punti di contatto sul fronte più caldo, l’economia. Con una novità: perché se le lobby e gli endorsement sono sempre esistiti, il sostegno pubblico si è trasformato in partecipazione diretta alla campagna elettorale. Vedi alla voce Musk e non solo.
Sideralmente lontani, comunque, sono i tempi in cui Trump si affacciava in politica. Anno 2016: «Sono incorruttibile, così ricco che non ho bisogno dei soldi di nessuno», rivendicava il repubblicano. Oggi, sottolineano Ong come Better Markets, Trump sembra avere «un cartello “in vendita” appeso al collo, pronto a liquidare ogni norma, ogni regolamento in cambio di contributi alla sua campagna». Contributi che hanno giustificato anche cambi di rotta a 360 gradi, come l’improvvisa apertura sulle criptovalute. Harris, da parte sua, ha capitalizzato legami con il mondo tech, finanziario e dell’editoria, oltre che con le grandi università, i sindacati e l’industria “verde”. Gruppi portatori di interessi diversi. Che a Washington, quando sarà il momento, sapranno incassare. In generale, l’agenda Trump punta a una «riduzione massiccia» della spesa pubblica per contrastare l’inflazione e al taglio dell’imposta sulle società al 15% per le aziende che producono beni negli Stati Uniti. Il repubblicano ha inoltre promesso di esentare i benefit della previdenza sociale dalle tasse, una proposta che, secondo alcune stime, aggiungerebbe fino a 1.800 miliardi di dollari al deficit federale nel prossimo decennio. Pronto, inoltre, il piano di incrementi al 60% dei dazi su alcuni beni cinesi, una mossa protezionistica che intensificherebbe la battaglia commerciale con Pechino.
Nel mirino del repubblicano dovrebbe finire anche l’Inflation Reduction Act, provvedimento manifesto dell’era Biden che prevede, tra l’altro, sussidi per le tecnologie di energia pulita. Le regolamentazioni ambientali, per Trump, rischiano di ostacolare l’industria, a partire da quella per la produzione di combustibili fossili come petrolio e gas naturale. Harris, dal canto suo, continuerebbe invece sulla linea Biden sul green come su altri fronti, anche se molti analisti sottolineano il rischio di ulteriori aumenti del deficit con la crescita, promessa, della spesa pubblica. Oltre a un’imposta patrimoniale del 25% sui super-ricchi, Harris ha annunciato l’aumento dell’aliquota fiscale sulle società dal 21 al 28%. Sostiene inoltre l’aumento del salario minimo, un credito d’imposta per i neonati fino a seimila dollari all’anno, il rilancio della politica antitrust in settori come l’energia, l’aerospaziale e il tech. Settori in cui gli appetiti non mancano. In generale, ha calcolato l’organizzazione Americans for Tax Fairness, in questo ciclo elettorale 150 famiglie miliardarie hanno speso 1,9 miliardi di dollari, il 58% in più di quattro anni fa. Nessun riccone ha investito più di Elon Musk, che ha versato 118 milioni di dollari per Trump, salendo sul palco con il miliardario e in attesa di incassare contratti per le sue aziende e, magari, un posto nella nuova Amministrazione. Con Trump anche Kelcy Warren, a capo di Energy Transfer, e la miliardaria dei casinò Miriam Adelson. Con Harris, si sono schierati a suon di decine di milioni di dollari Bill Gates e Michael Bloomberg, mentre James Murdoch è tra le decine di business leader che si sono da tempo esposti per la democratica. Da una parte o dall’altra, l’aroma più intenso resta quello dei dollari.
Paolo M. Alfieri
La politica estera: svolta al buiosu Ucraina e Medio Oriente
Continuità contro rottura. Sono queste le chiavi interpretative della politica estera americana che potrebbe delinearsi dal prossimo gennaio, quando entrerà in carica il nuovo presidente. Joe Biden passerà il testimone a un successore che, comunque, non potrà né vorrà seguire esattamente tutti i suoi passi. Kamala Harris è stata la numero due dell’Amministrazione democratica per quattro anni, ma non si è occupata di affari internazionali e anche la sua competenza in materia sembra limitata, sia per formazione sia per contatti con i leader mondiali. Sarà quindi determinante la squadra che sceglierà per essere affiancata e consigliata. Potrebbe confermare Antony Blinken e Jack Sullivan, ma il senatore Chris Murphy è un candidato autorevole al Dipartimento di Stato. In ogni caso, l'approccio attuale, basato su diplomazia, partnership globali e soluzioni multilaterali delle crisi internazionali resterebbe sostanzialmente immutato. Dovranno però cambiare le strategie specifiche rispetto ad alcuni dei fronti più caldi. Sull’Ucraina, sarà l’ora di decisioni più nette e lungimiranti. Se tutto è stato di fatto congelato in attesa del voto, una Harris nello Studio Ovale dovrà trovare una via verso la svolta. Più aiuti militari e via libera a colpire ovunque la Russia? O la spinta verso un negoziato che includa anche una partnership di Kiev con la Nato? Certo, gli Usa non abbandoneranno Zelensky e nemmeno gli alleati europei, anzi, si andrà a un rafforzamento dell’Alleanza atlantica. Un riaggiustamento di linea si potrà, invece, osservare sul Medio Oriente. È noto che Harris non ama Netanyahu e, senza più le preoccupazioni elettorali, assumerà una postura più determinata verso il governo israeliano sulle stragi di civili e l’allargamento del conflitto. La presidente sarà comunque molto attenta al dossier cinese, sia sul versante della competizione economico-strategica sia su quello dei diritti umani. Potrebbe tuttavia perseguire una politica di collaborazione sul terreno del clima e della salute globale, due temi sui quali ha dimostrato particolare attenzione.
Di certo, queste non sono le priorità dichiarate da Donald Trump. Se tornerà a essere il Comandante in capo, molto probabilmente vedremo all’opera la “diplomazia transazionale”, un approccio pragmatico alla politica estera che privilegia gli scambi e le negoziazioni concrete tra Paesi, basati su vantaggi immediati e specifici per gli Stati Uniti. Non conteranno tanto valori condivisi, alleanze durature o obiettivi a lungo termine, l’idea alla base di questa visione è che gli Stati Uniti si impegnino con altre nazioni solo quando ricevono benefici tangibili, che siano economici, politici o di sicurezza. Ciò porta a privilegiare relazioni bilaterali, ponendo quindi ai margini istituzioni come l’Onu o l'Unione Europea e mettendo come stella polare gli interessi commerciali o finanziari immediati. Di qui l’apertura al dialogo senza precondizioni con regimi autoritari o poco rispettosi dei diritti civili. Se l’America può guadagnare qualcosa nel porre fine alla guerra in Ucraina, gli obiettivi di libertà, democrazia o stabilità globale fuori dai confini Usa possono passare in secondo piano nell’ottica della diplomazia transazionale. Di qui la minaccia di restrizioni alle importazioni dalla Ue e un duro confronto con Pechino a colpi di tariffe sui prodotti del Dragone e protezionismo tecnologico-industriale all’insegna dello slogan “America first” (anche se potrebbe esservi meno determinazione nel difendere Taiwan, a differenza di quanto farebbe Harris). Nella stessa prospettiva, non è un mistero che il leader repubblicano voglia accollare più oneri della Nato al Vecchio Continente, che ha minacciato altrimenti di lasciare esposto alle mire di Mosca. Sul fronte mediorientale, è forte la sintonia con l’attuale premier di Tel Aviv, al quale potrebbe lasciare mano libera per un’azione ritenuta risolutiva contro l’Iran, uno dei “nemici” di una possibile nuova Amministrazione Trump, poco incline alla causa di uno Stato palestinese e molto più interessata a completare il mosaico degli Accordi di Abramo con la galassia sunnita (vero successo del suo primo mandato), al fine di garantire Israele e raggiungere una pace armata nella regione. Complessivamente, una Casa Bianca a guida repubblicana porterebbe l’America verso un isolazionismo che penalizzerebbe la cooperazione e la governance globale sui temi ambientali e di sicurezza alimentare e sanitaria. Tuttavia, chiunque uscirà vincitore dalle urne dovrà fare i conti con un pianeta in cui Brics e Sud globale sono sempre meno disposti ad accettare le scelte fatte a Washington.
Lo scontro sul “diritto di aborto”
Presidenziali e aborto. È la doppia partita elettorale che verrà giocata, oggi, in dieci dei cinquanta Stati americani. La chiamata a due voci alle urne in Arizona, Colorado, Florida, Maryland, Missouri, Montana, Nebraska, Nevada, New York e South Dakota rappresenta una delle scosse di assestamento più forti seguite al terremoto della sentenza con cui, nel 2022, la Corte Suprema ha svuotato di legittimità federale il diritto all’interruzione volontaria della gravidanza rimettendo ai singoli Stati ogni decisione in merito. La geografia dell’accesso all’aborto negli Stati Uniti è da allora in continua evoluzione. In quattrodici Stati (come Texas, Alabama e Luisiana) è pressoché bandito; in nove (per esempio in California, Vermont e Oregon) è invece sostanzialmente sempre possibile. Nel mezzo ci sono tutti gli altri, l’altra metà del Paese, che l’hanno regolarizzato contemplando finestre di accesso comprese tra le sei e le diciotto settimane. Sette Stati sono arrivati a questo assestamento proprio per mezzo dell’iniziativa popolare sollecitata dalle associazioni pro-choice che hanno tentato negli ultimi due anni di blindare il diritto all’aborto nella Costituzione statale. Ora tocca ad altri dieci.
La questione, va ricordato, è entrata a gamba tesa nella corsa alla Casa Bianca. Il repubblicano Donald Trump si è sempre vantato di aver «sepolto» la sentenza “Roe vs Wade”, quella che per più di 50 anni ha garantito l’aborto negli Stati Uniti, costruendo all’interno della Corte Suprema una maggioranza pro-life. In campagna elettorale, tuttavia, questo è diventato uno dei suoi punti deboli: il motivo della rottura con l’elettorato femminile determinato a non rinunciare alla libertà di decidere se portare avanti, o meno, una gravidanza. Si dice che il passaggio sull’aborto riportato dalla moglie Melania nel suo libro di memorie («perché qualcuno dovrebbe avere il potere di determinare cosa una donna può fare con il proprio corpo?») sia maturato come strategia per correggere il tiro. La rivale Harris è diventata paladina delle donne anche per questo.
Secondo i sondaggi, tuttavia, l’aborto non deciderà chi, tra Trump e Harris, vincerà la partita per la poltrona dello Studio Ovale. Il fattore decisivo è l’economia. L’interruzione volontaria della gravidanza, insieme a clima e diritti civili, non sarebbe neppure tra i primi cinque temi chiave delle elezioni. I proclami di democratici e repubblicani in materia vengono considerati per lo più uno strumento per erodere manciate di consenso nel testa a testa finale. Il futuro delle politiche sull’aborto negli Stati Uniti è rimesso all’esito dei referendum e, dettaglio non secondario, del voto per il rinnovo delle sezioni locali della Corte Suprema in programma, sempre oggi, in trentatré Stati tra cui Arizona, Florida, Maryland, Nebraska e Nevada. Saranno i togati ad avere l’ultima parola, anche in caso di modifiche pro-choice alla Costituzione. Secondo gli esperti questo è il motivo che ha sfatto schizzare verso l’alto, fino a numeri a sette cifre, la raccolta fondi per le campagne elettorali dei giudici che, durante l’era “Roe vs Wade”, erano circoscritte all’indipendenza e all’integrità personale dei candidati. È chiaro che, oggi, non è più così.
Angela Napoletano