Una manifestazione a favore del candidato presidenziale Ebrahim Raisi a Teheran - Reuters
Le elezioni presidenziali di domani cadono in un momento particolarmente difficile per la Repubblica islamica dell’Iran: la crisi economica che morde da tempo ha provocato in questi ultimi anni numerose proteste represse nel sangue e sta impoverendo drammaticamente anche il ceto medio; il Paese è isolato e allo stesso tempo pericolosamente sovraesposto nella regione; politicamente, l’apatia della popolazione e le campagne per boicottare le prossime votazioni rivelano quanto sia ormai sfilacciato e fragile il sostegno di cui gode la corrotta e illiberale élite di potere post-rivoluzionaria. Queste elezioni presidenziali dimostrano anche la mancanza di fiducia che il regime nutre nei confronti della propria base di consenso, dato che ha deciso di manipolare preventivamente i risultati, dichiarando inammissibili la maggior parte dei candidati che si erano proposti. Una pratica ben nota in Iran, ma che non aveva mai raggiunto questi livelli di spudorata arbitrarietà. Quest’anno, infatti, il Consiglio dei Guardiani, ossia l’organo che deve vagliare tutte le candidature, ha messo fuori gioco tutti coloro che potevano togliere voti al leader religioso che l’establishment vuole quale nuovo presidente della Repubblica. Questi è il capo del potere giudiziario, il conservatore Ebraihim Raisi, 60 anni, molto caro alla Guida suprema, l’ayatollah Ali Khamenei, ormai malato e declinante.
Venerdì elezioni pesantemente condizionate dalla selezione dei candidati imposta dal regime teocratico
Grande sconfitto alle passate elezioni, Raisi – un conservatore scialbo e non carismatico, con un oscuro passato come severo giudice, spesso accostato alle brutali esecuzioni di massa degli scorsi anni – non gode che di un consenso minoritario fra gli elettori iraniani. Da qui la scelta del regime di squalificare ogni possibile serio contendente. Se era immaginabile che la scure dei Guardiani sarebbe calata su quasi tutti i riformisti, ha sorpreso che perfino il potente Ali Larijani, esponente di una delle famiglie dei gruppi islamisti più autorevoli e legati a Khamenei, venisse dichiarato non idoneo a correre per la presidenza. Una decisione ridicola, dato che in passato egli era già stato ammesso alla competizione (e sonoramente sconfitto), oltre ad aver servito in una infinità di cariche governative. Questa selezione così drastica e così manipolatoria ha scatenato le proteste di molti fra gli stessi conservatori più tradizionali, preoccupati di mantenere un certo equilibrio – almeno formale – fra gli aspetti 'democratici' della Repubblica islamica e quelli 'islamicorivoluzionari', che garantiscono la supremazia degli organi non elettivi del complesso sistema costituzionale iraniano. Perfino il fratello di Larijani, l’autorevole religioso Sadegh Larijani, ha protestato duramente per questa decisione del Consiglio dei Guardiani, definendola incomprensibile e ingiusta. Un commento sorprendente visto che Sadegh Larijani è un membro dello stesso Consiglio.
Anche Khamenei è dovuto intervenire, offrendo una sorta di scuse indirette per il trattamento subito da alcuni candidati. Ma nulla è cambiato: risulta evidente che all’interno del nezam, ossia il sistema di potere post-rivoluzionario, vi siano forze potentissime – in particolare i pasdaran, elementi dell’intelligence e i conservatori più integralisti – a favore di una trasformazione della Repubblica islamica in senso ancora più totalitario, eliminando quella compresenza di correnti di pensiero diversificate e quel poco che rimane di una certa tolleranza verso i riformisti e i moderati. Alle elezioni si sfidano dunque Raisi e altri quattro pretendenti dalle scarse possibilità (due altri candidati si sono ritirati in questi giorni). L’unico associabile al fronte riformista è il tecnocrate moderato Abdolnaser Hemmati, ex capo della banca centrale. Forse il solo che potrebbe avere una chance di sfidare seriamente Raisi, se la base riformista dovesse decidere di andare a votare e non astenersi. Vi sono poi conservatori legati ai pasdaran, come il sessantaseienne Mohsen Rezai, che ha partecipato a diverse competizioni senza mai raccogliere se non percentuali minime di consensi; Sa’id Jalili, legatissimo a Khamenei e senza chance di vittoria, così come Amir-Hossein Ghazizadeh Hashemi, un parlamentare su posizioni conservatrici radicali.
Le previsioni danno per vincente già al primo turno il tetro Rezai, per quanto impopolare. Ma in passato, diverse volte, il regime si è accorto di aver sbagliato i conti, ritrovandosi spesso a confrontarsi con la vittoria elettorale di candidati meno graditi. Difficile tuttavia che Hemmati riesca a mobilitare i tanti iraniani disillusi e rassegnati a un regime tanto corrotto e inefficiente quanto radicato nei gangli del potere. Tuttavia, non va sottostimato il fatto che con queste elezioni così falsate, il sistema politico perderà ulteriormente legittimità; una scelta pericolosa vista la sovraesposizione regionale e l’isolamento internazionale di Teheran. Favorire in modo così smaccato la vittoria di un conservatore anti- occidentale come Raisi non renderà più semplici i già complicati negoziati per far tornare gli Stati Uniti al tavolo dell’accordo nucleare siglato da Obama nel 2015 e de- nunciato unilateralmente da Trump nel 2018. Biden vuole ripartire da quell’accordo, ma la strada è lastricata di difficoltà. Tanto negli Usa, quanto in Iran, dove i gruppi più radicali stanno sabotando ogni possibilità di un compromesso. Una scelta che appare in Occidente incomprensibile, vista la catastrofica situazione economica iraniana – con il disperato bisogno di far rientrare in Iran almeno le aziende europee – e le pressioni regionali. Ma tutto ciò riflette l’oltranzismo dei gruppi legati alla parte peggiore del sistema, i quali hanno conquistato il potere marginalizzando riformisti e moderati proprio in virtù del clima di contrapposizione e di minaccia all’esistenza stessa della Repubblica islamica. Sono gli stessi gruppi che spingono per mantenere una sovraesposizione a livello regionale in Iraq, Siria, Libano, Palestina, Yemen e guardano con scetticismo ai tentativi recenti di dialogo con gli Emirati e i sauditi. Di fatto oggi è in atto in Iran una presa del potere senza precedente da parte del cosiddetto 'Deep State', ossia la parte più oscura, profonda e meno visibile degli apparati istituzionali iraniani.
Sullo sfondo la trattativa con gli Usa sul nucleare e i delicati equilibri nella regione, con un Paese provato dalla crisi
La nomina a presidente della Repubblica servirebbe a Raisi, che teologicamente gode di scarso prestigio fra gli ayatollah, per rafforzare la sua credibilità a succedere all’anziano Khamenei, quale nuova Guida suprema. Lo stesso Khamenei venne nominato ayatollah in tutta fretta, alla morte di Khomeini. In fondo, l’obiettivo principale del nezam è la sua sopravvivenza: competenze religiose, rispetto della costituzione e, in ultimo, la volontà degli stessi iraniani sono aspetti del tutto secondari: come un Moloch antico, che divorava i figli del suo popolo, tutto può essere sacrificato sull’altare del potere. Anche a costo di ridurre ulteriormente la ristretta base che crede ancora negli slogan e nella retorica rivoluzionaria e al prezzo di allontanare ancor più dalla fede islamica sciita una popolazione disgustata dalla corruzione del clero al potere. Si tratta di una paradossale contraddizione: è stata proprio la Repubblica costruita in nome dell’islam a svuotare le moschee e a spingere milioni di iraniani a non considerarsi più religiosi o a cambiare segretamente la propria fede (un reato punibile teoricamente con la morte). Una tendenza che i religiosi meno compromessi con il potere hanno capito, e che non potrà certo essere invertita con queste dimostrazioni di arrogante dispotismo.