In questo tempo della fatica, della crisi, in mezzo alle parole che continuamente ne parlano, in mezzo ai volti tesi, in mezzo al traffico sordo, irascibile, ho visto un ramo di ciliegio fiorito. Bianco come una parola che rimane sospesa. È primavera. Cosa vuol dire? Mi sono ripetuto: che cosa vuol dire? Nonostante i segni delle stagioni e dei climi sembrino a volte confondersi, ora sì, è innegabile. C’è quel ramo bianco. Perfetto. E l’albero là, pieno d’una luce nuova. È il
primo vere,
il tempo primario.
Dell’inizio, del sempre nuovo inizio. Cosa vuol dire? Mi chiedo ancora, quasi come un inebetito, o forse per una frazione di secondo, me lo chiedo come un ragazzetto. Le stagioni cambiano, si sa. Si alternano il tempo rigido e il dolce. E sì pure loro, le fantastiche dibattute e comiche mezze stagioni. E a pensare così si viene risucchiati in un vortice, in un gorgo che trascina all’abbagliante oscuro mistero del tempo. Ma ora, quel ramo bianco, in mezzo all’urlo della vita che rabbiosamente lotta contro le scadenze dei debiti, gli attacchi di nervoso delle persone, contro la malora, contro la tristezza, ora, quel ramo bianco che cosa vuol dire alla mia vita, e a questa città? Non significa niente? Fiorisce lì, a caso, come la parola di un oscurato di mente, come una graziosa follia?
Che cosa dice la primavera al mio cuore, al mio sangue, alla mia intelligenza delle cose? Dice che siamo fatti per assaporare il gusto dell’inizio, del sempre reiniziare delle cose. Che – come appuntò Pavese – il bello della vita è iniziare. Ma non quell’iniziare ripetuto che è proprio di chi lascia sempre le cose a mezzo e dunque ne pasticcia di nuove. Bensì l’inizio che – come la primavera, appunto – si ripete nel tempo, risiede a un livello della vita, della natura e del tempo che non è raggiungibile dalle ombre dell’inverno, e dalle falci del nulla.
Il ramo di ciliegio dice: l’inizio torna. Dice: c’è un sorriso in fondo e all’inizio delle cose che va guardato e interpretato. Perché non si capisce il mondo solo parlando di crisi o di soldi. Non si capisce niente se non si guarda l’imperioso, dolcissimo parlare della natura. E il suo urgere tutto e tutti con un nuovo desiderio. Con un movimento di nuova festa. La bellezza fine e fantasiosa del ramo bianco viene dalle misteriose regioni profonde del vivente. Sale, cresce lungo il comporsi di elementi, di linfe, di succhi e di semi. Non si capisce nulla se ci guardiamo solo come autunno, o come inverno. E non capiamo nulla di noi stessi se guardiamo l’esistenza senza avere negli occhi il ramo bianco, o quel che il grande poeta Dylan Thomas (di cui il cantautore Bob ha preso il nome) chiamava: la miccia verde della vita. La primavera è una forza più grande di noi.
Davvero questo non c’entra con la crisi economica? C’è una sapienza – verrebbe da dire una tecnica, ma del profondo – che ci può soccorrere davvero nella crisi. Il mandorlo o il pesco non chiedono al nostro umore o all’addetto della nostra banca il permesso di fiorire. E così pure i nostri desideri primari. La vita non dipende da noi, mai. Quella fuori di noi, nelle distese dei campi e nelle distese degli altri, e nemmeno dentro di noi. Il primo tempo, l’inizio non lo avviamo noi. Il ramo bianco lo dice, con il suo alfabeto strano. Ce lo ricorda, per fortuna abbastanza spesso. Forse la cosa migliore nei tempi di crisi è distogliere per un poco lo sguardo dai monitor e dai listini, dalle ansie quotidiane e dal conteggio di difetti e di debiti e guardare e obbedire a lei, alla dolce e potente lezione (senza parole) della primavera.
Forse scorgeremmo da dove viene la forza di ripresa a cui affidarci. Forse inizieremmo già a non essere più inverno.