Una buona giornata, il lavoro da fare
giovedì 13 settembre 2018

L’Europa che, nelle sue stanze, finalmente fa l’Europa, e, fuori, un mondo ormai così complesso e frammentato da non poter essere facilmente interpretato. La giornata di ieri ha visto una decisione senza precedenti del Parlamento di Strasburgo sul caso Ungheria e un altro pronunciamento di notevole importanza in tema di copyright. Nello stesso tempo ha osservato fratture interne a forze politiche omogenee, in particolare nel Ppe che accoglie Viktor Orbán nella sua famiglia, e distonie all’interno di partiti – come i cinquestelle italiani – che hanno scelto prima la linea Ue e poi hanno duramente contestato l’Unione per la svolta sul diritto d’autore.

La condanna del governo di Budapest, con la richiesta di attivazione dell’articolo 7 del Trattato europeo, segna il riconoscimento a larga maggioranza che la "democrazia illiberale" orgogliosamente rivendicata dal premier Viktor Orbán non è compatibile con i princìpi ispiratori dell’Unione. Non è una vendetta perché l’Ungheria rifiuta di aprire le sue frontiere né un attentato alla sovranità popolare della nazione – come hanno detto i "difensori" di Orbán, tra cui Matteo Salvini –, ma un gesto coraggioso di fedeltà alla propria ispirazione da parte dell’Europa in quanto istituzione. Era proprio il nazionalismo la bestia nera che nel dopoguerra i più illuminati (e rimpianti) padri fondatori volevano combattere, ritenendola la radice dei mali che avevano afflitto il continente, fino al male assoluto di Auschwitz.

Non ci saranno vere sanzioni per l’Ungheria che ha violato le regole europee su magistratura, media, università e rifugiati – la parola ora passa al Consiglio dei capi di Stato e governo, dove probabilmente a bloccare tutto basterà il veto degli amici polacchi, anch’essi sotto procedura di infrazione per motivi non dissimili –, eppure il voto a larga maggioranza dell’Aula dice un chiaro no al cavallo di troia del sovranismo. Non si può stare nella Ue, godere dei suoi benefici economici e alzare muri, negare diritti, incamminarsi verso forme (più o meno) velatamente autoritarie. La partita alle prossime elezioni di maggio nei 27 Paesi membri si giocherà proprio su questa contrapposizione. E non è affatto chiusa.

Coloro che non credono in questa Europa sono in crescita e hanno spesso facilità nel trovare frecce al proprio arco. Non basta infatti una giornata dell’orgoglio – e delle buone decisioni – ritrovati per invertire una rotta in parte compromessa. L’approvazione della direttiva sul diritto d’autore sembra essere un efficace strumento – seppure da rendere concretamente attuabile – per tutelare l’informazione di qualità da uno sfruttamento improprio a favore di grandi piattaforme globali che non la retribuiscono, con conseguente impoverimento anche del dibattito pubblico a seguito della chiusura di testate, mentre sono salvaguardate la libertà di espressione individuale e gli utilizzi a fini educativi (compresa Wikipedia).

Poco prima del voto sul copyright era però andata in scena la poco credibile fiera delle buone intenzioni, di cui è stato intessuto l’ultimo discorso sullo stato dell’Unione pronunciato dal presidente della Commissione, Jean-Claude Juncker. Contenuti condivisibili (quasi) dal primo all’ultimo: l’Europa non sia una fortezza, parli con una sola voce, difendiamo la sua immagine, la Brexit è sbagliata, apriamo vie di immigrazione legale verso l’Europa, creiamo nuovi accordi commerciali con l’Africa che portino 10 milioni di posti di lavoro nei Paesi più svantaggiati. Un libro dei sogni che era già aperto all’inizio del mandato, 4 anni fa, e che resterà tale alla fine della legislatura nel 2019.

Quello che manca all’Europa è proprio la capacità di condividere maggiormente, agire di concerto superando rivalità e piccoli interessi, mostrarsi amica, non lontana e matrigna, dando anima a un vero patriottismo che funzioni come forza attrattiva a contrasto delle spinte centrifughe. Va in questa direzione il varo definitivo, sempre in queste ore, del Corpo europeo di solidarietà, sorta di servizio civile continentale, che metterà fianco a fianco giovani impegnati nel sociale 'oltre le frontiere', come nel programma Erasmus, un successo europeo tra i più fecondi e di lunga portata.

Ma, com’è evidente, ancora poca cosa di fronte alla crisi di consenso in atto. I segnali venuti dal Parlamento, che nell’esprimersi sul diritto d’autore ha resistito alla pressione delle lobby via social media, possono indurre a un lieve ottimismo. Se i rappresentanti eletti e le classi dirigenti trovano un sussulto di sano europeismo, c’è spazio per recuperare il tempo perduto. Non si può dimenticare che gli stessi giganti del passato – da Schuman a Monnet, da Adenauer a De Gasperi e Spaak – non disdegnavano un certo verticismo decisionale e che anch’essi, nell’era di Facebook, non avrebbero sempre avuto buona accoglienza da un’opinione pubblica frammentata e incline a seguire l’onda mutevole delle emozioni del momento.

La lunga campagna elettorale verso le elezioni di maggio ci dirà se la giornata di ieri è stata un nuovo inizio o solo una piccola luce destinata a spegnersi presto.

© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: