sabato 3 dicembre 2011
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Il Rapporto annuale del Censis sulla situazione sociale dell’Italia ci dice come siamo, dentro e fuori. Dice la nostra condizione materiale, le cose, esplora i comportamenti, le tendenze; ma interroga anche le opinioni e i pensieri. Ciò che registra somiglia per certi versi a un censimento. Ma è un censimento speciale, 'in profondo', tasta la nostra identità interiore, le piste della vita vissuta, problemi, crisi, speranze, prospettive. C’è in questa fatica lo scandaglio dell’anima, ed è questo che fa il ritratto di un popolo. Gli argomenti sono quanto è complessa la vita, a partire da ciò che frattanto ci brucia i pensieri e inquieta i sonni più della crisi, l’emozione di una fragilità, di un isolamento, di un declino. E il bisogno di recuperare fierezza, dignità, desiderio. Lo sguardo del Rapporto è impietoso, come dev’esserlo la scienza; ma non senza quell’accoramento che viene da un panorama 'familiare' (la realtà della nostra casa) quando stringe il cuore. Si parla di economia, di salute, di povertà, di lavoro e disoccupazione, di istruzione, di welfare e di tagli, di relazione. Di relazione, soprattutto. Qualcosa di nuovo sta nascendo, nel bene o nel male; su qualcosa c’è da piangere, su altro da sperare. Di questi segni di speranza vogliamo occuparci, ora che l’anno si avvia alla fine, per affidarvi il futuro. Il primo segno è che gli italiani conoscono bene il catechismo civile della legalità; tanto che dicono in massa che evadere il fisco è sbagliato e immorale. Forse par poco, finché a opinione virtuosa non segua virtuosa condotta, se si fa sul serio. Ma intanto gli occhi sono reciprocamente aperti, e l’arte dei furbi non è più virtù nazionale invidiata, ma vizio squalificato e svergognato; nelle interviste, la parola che serve per «migliorare la convivenza sociale» si chiama finalmente col suo nome: onestà. Vi si salda insieme un secondo segno, che rinnega l’egoismo asociale del tornaconto solitario. È il segno dell’appartenenza e del riconoscimento; è il sentirsi parte della comunità, nelle sue localizzazioni più grandi o più piccole, come criterio di identità italiana. Ciò ravviva l’immagine, che pareva sbiadita, di quella relazione vitale che la Costituzione nell’articolo 2 ha chiamato «solidarietà». Ma vi si aggiunge ancora, a corona, una coscienza collettiva che torna a fronteggiare la storia: sei italiani su dieci sono disposti «a sacrificare in tutto o in parte il proprio tornaconto personale per l’interesse generale del Paese». Sembra di sognare? Il pessimismo cui siamo avvezzi, e il gusto persino di denigrarci, ci fa dubitosi. Ma le batoste cambiano non solo la storia, cambiano anche il cuore e le viscere, con le loro sfide; e di sfide è pieno il nostro tempestoso orizzonte. Perché non provare davvero a dare verità a questa voglia di rimonta? Le risorse umane, dice il Censis, ci sono; sono «le radici della nostra lunga durata», e i pilastri della vita sociale fanno perno sul senso della famiglia quale primo valore coesivo. Se non perdiamo le radici e non perdiamo i pilastri, possiamo ancora farcela, noi, «itala gente da le molte vite». Ma rifatti nuovi, stavolta, rifatti onesti, e solidali, e capaci di sacrificio. E ritemprati nella relazione di vita, la famiglia, di più intensa appartenenza umana, di cura instancabile, fedele, resistendo alle derive che la infragiliscono, chiedendo alla politica di non disertare il compito di tutelarla e aiutarla. Questo gli italiani hanno in cuore che avvenga. La speranza, goccia d’acqua nell’arsura della crisi. Ma se davvero vogliamo, se ci sentiamo di prometterlo, avverrà.
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