Siciliani
Caro direttore,
in riferimento all’articolo di Maurizio Carucci del 13 maggio “Aziende a caccia di profili Stem, ma non trovano candidati”, a mio avviso il problema sono le condizioni. I profili Stem (acronimo dall’inglese science, technology, engineering and mathematics, ndr) esistono, sono sul mercato, ma non si fanno trovare, perché le aziende sono decotte e le condizioni da miserabili. Io sono un profilo Stem, e – se posso – anche di una certa qualità e competenza. Ma piuttosto che andare a lavorare per quelle piccole-medie aziende che cercano e che soprattutto pagano due lire, nessuna valorizzazione, o con gente spesso ignorante e povera in cultura, ovvero in ambienti che niente hanno di comparabile a quanto si trova a livello internazionale, preferisco starmene fuori dal mercato del lavoro, piuttosto che contribuire al sostentamento di queste e simili realtà. Che le aziende, finché non cambieranno le condizioni e la cultura aziendale e imprenditoriale, si arrangino e continuino a piagnucolare perché non trovano nessuno (quale pretesa, poi, di trovare qualcuno senza avere praticamente niente da offrire!). Finché non si tornerà ad avere aziende che siano in grado di produrre ricchezza diffusa, invece che solo per la proprietà, lasciando poveri chi ci lavora, queste realtà non conteranno di certo sulla mia complicità per il loro sostentamento. E anche voi giornali dovreste smettere di continuare a dare spazio a queste notizie, raccontando per giunta solo una parte della verità oggettiva (peraltro, sempre la stessa solfa...).
Davide
Gentile Davide, il direttore mi chiede di rispondere alla sua, piuttosto disperante, lettera. Comprendo la disillusione rispetto alla domanda di lavoro di una parte delle imprese italiane, in particolare un segmento di quelle medio-piccole, a cui fa difetto l’innovazione dei processi, del modo di operare di proprietari e management, dei rapporti con i dipendenti.
Il “mismatch”, il mancato incontro tra giovani professionalità e imprese, ha certamente come concausa la qualità delle offerte delle aziende, assieme alla scarsità di persone adeguatamente formate, in particolare sulle materie Stem. Gli stipendi, soprattutto in entrata sono troppo bassi, le prospettive di carriera spesso scarse e soprattutto molti giovani non si sentono valorizzati adeguatamente per le loro capacità né coinvolti in un processo di crescita realmente partecipato. Ha ragione a lamentare tutti questi deficit che sono reali. Detto, questo, però, non riesco a seguirla nella seconda parte del suo ragionamento, laddove sostiene che preferisce perciò restare fuori dal mercato del lavoro. Forse perché appartengo a una generazione diversa, quella di metà degli anni ’60, non riesco neppure a concepire l’idea che si possa preferire non impegnarsi anche quando le condizioni non sono favorevoli o adeguate. Con l’eccezione dei lavori pericolosi, degradanti o ai limiti della legalità, per tutto il resto coltivo l’idea, forse poco moderna, che le situazioni difficili o ci si impegna per cambiarle “dall’interno” o si saluta e si cambia azienda e magari Paese. Oppure, ancora, ci si inventa imprenditori di sé stessi.
L’ipotesi del non-lavorare, che pure tenta oggi una parte dei giovani neet o comunque inattivi, la trovo pericolosamente limitante anzitutto per sé stessi. Soprattutto oggi che – come profetizzava qualche anno fa un libro del giuslavorista Pietro Ichino – siamo entrati nell’era in cui è il lavoratore, grazie alle sue competenze, a poter scegliere l’impresa in cui prestare la propria opera, selezionandola in base alle condizioni offerte in termini di stipendi, benefit, gestione intelligente del tempo, capacità di coinvolgimento. E, con questo rafforzato potere di scelta, costringere le stesse imprese e il sistema economico in generale ad evolvere. I primi segnali, in direzione di una nuova consapevolezza da parte del mondo imprenditoriale, ci sono. Sta a noi, con le nostre scelte di lavoratori e consumatori attenti, farle maturare sempre di più.