Danimarca, Svizzera, Islanda, Norvegia, Finlandia, Canada, Olanda, Nuova Zelanda, Australia, Svezia. Sono i dieci Paesi più "felici" al mondo secondo la classifica del World Happiness Record 2016. L’Italia è risultata cinquantesima, posizione che abbiamo accettato senza protestare, segno che in fondo quel posto lo sentiamo adeguato. Ma che cosa hanno veramente in comune i dieci Paesi più felici? Qual è la formula che conduce alla felicità? E soprattutto: di quale felicità stiamo parlando?
Alcune risposte sono già state fornite dagli autori del rapporto: dove la disuguaglianza è più bassa, la popolazione si sente più felice. A contribuire sono in verità molti fattori: il Pil reale pro capite (aspetto non certo irrilevante), l’aspettativa di vita in buona salute, l’avere qualcuno su cui contare (dunque le relazioni), la libertà percepita nel fare scelte di vita, i bassi livelli di corruzione, la generosità. Volendo allargare lo sguardo ci sarebbero altri tratti comuni strutturali e persino curiosi a unire questi Paesi, come l’elemento fortemente caratterizzante dell’ambiente naturale, la disponibilità di risorse, la circostanza di climi non propriamente invidiabili. Anche il tema di come l’uomo si rapporta alla natura nello sforzo di creare condizioni di vita migliori, insomma, appare significativo. Ma quello della bassa disuguaglianza resta centrale, e porta diritto a parlare di condivisione. Come ha fatto notare l’economista Jeffrey Sachs, la formula richiede di «lavorare duro, avere buoni rapporti sociali», ma soprattutto «governare onestamente, pagare molte tasse in cambio di servizi adeguati».
Già, perché dietro all’equità si cela un cammino lungo e ben tracciato. I Paesi più "felici" sono tutti Paesi nei quali il fisco non è leggero, ma dove le risorse sono prima messe in comune e poi ridistribuite in modo da attenuare le disuguaglianze grazie a un sistema di welfare capace di offrire alle famiglie un ritorno elevatissimo in termini di servizi. Modelli invidiabili. Eppure c’è qualcosa che stona. A molti non è sfuggito che nella top ten vi siano anche molte nazioni che si distinguono per l’applicazione di politiche migratorie altamente selettive e severe, Paesi in cui si può fare esperienza di fenomeni che contrastano con l’idea comune di felicità, come l’elevato tasso di suicidi o di alcolismo, o dove sono permesse pratiche eticamente condannabili, come l’eutanasia attiva o il programma danese di eliminazione della sindrome di Down attraverso l’aborto dei bambini che ne sono portatori.
E allora che cosa è questa felicità che stiamo affannosamente cercando in una classifica come in una caccia al tesoro planetaria, quasi una ricerca di un nuovo Graal? È qualcosa che riusciamo a riconoscere e apprezzare come membri di un’unica famiglia umana, oppure è la soddisfazione dei superstiti che si sono dati buone regole di convivenza su un’isola nascosta alle mappe? La questione non è irrilevante, nella fase storica che il mondo sta attraversando. Onorare le più elementari norme civiche e di convivenza è da sempre la formula che permette alle ricchezze dei singoli di trasformarsi in bene per la collettività. Tutto parte da cittadini che rispettano le regole, i divieti, si fermano agli stop, sorpassano in modo civile, timbrano i biglietti del bus, e soprattutto pagano le tasse: bassi livelli di evasione e corruzione forniscono la traccia decisiva nella costruzione di un percorso che conduce alla felicità grazie alla riduzione della disuguaglianza. Eppure fermarsi a questi ingredienti di base non può bastare, esattamente allo stesso modo in cui il Pil non è più adeguato a fissare il benessere di una società.
La classifica della felicità si basa su valutazioni soggettive, dunque non si può fare niente se i cittadini di un Paese si dicono più felici di quelli di un altro. Ma questo è anche il suo limite, dato che la somma delle singole felicità individuali non è certo la formula del benessere collettivo. Forse in questo caso dovremmo chiederci se è corretto parlare di "felicità", e non invece di "soddisfazione", "serenità", "appagamento", o altro. E poi ricordarci che una società di felici non è per forza anche una società più giusta.