È rimasto probabilmente deluso chi si aspettava da Giorgia Meloni, ieri in visita a Caivano dopo l’orrore delle violenze di gruppo su due bambine, un approccio esclusivamente securitario. Così non è stato, la presidente del Consiglio ha affiancato all’esigenza di «controllo del territorio» (tante volte evocato e promesso, anche da altri prima di lei, ma scarsamente operato a giudicare dai fatti) proposte di “ricucitura” di un tessuto cittadino profondamente lacerato: la lotta alla drammatica dispersione scolastica, l’idea di tenere aperti gli istituti d’istruzione anche di pomeriggio come centri di sana socialità, l’annuncio che il centro sportivo – forse teatro dell’orrore di cui sono state vittime le due piccole – sarà riavviato alla piena funzionalità entro la primavera e posto sotto la gestione delle Fiamme Oro della Polizia, la promessa di una biblioteca pubblica.
Ma delusi saranno rimasti anche quegli abitanti di Caivano, forse tra i molti che non hanno voluto partecipare alla marcia di denuncia di tre giorni fa al Parco Verde, che hanno rimproverato al parroco don Maurizio Patriciello di aver invitato Meloni a visitare questo rione da anni preda della criminalità organizzata.
Per alcuni, da quelle parti, la presenza delle istituzioni non è un conforto, ma un fastidio, ed è facile comprenderne le ragioni. Speriamo che quegli “alcuni” siano sempre meno, fino a scomparire, nelle giovani e nelle future generazioni. La sfida, in fondo, è tutta lì: investire nei giovani, aiutarli a capire che è meglio fidarsi dello Stato che della camorra. Una sfida ardua, perché si tratta di sradicare anni e anni di sottocultura, di narrazione mortifera di un mondo davvero al contrario, dove il boss è il buono e lo “sbirro” il cattivo.
Impossibile, perciò, non concordare con la premier quando dice che Caivano va «bonificata», non soltanto a livello territoriale ma, appunto, anche culturale e sociale. Per ora, certo, si tratta di buoni propositi, elencati “a caldo” in un momento di grande turbamento collettivo suscitato da misfatti ignobili. La vera scommessa parte da oggi, a riflettori spenti, ed è quella di realizzare fino in fondo «il necessario», il «possibile» e poi magari «l’impossibile», per parafrasare Meloni che ieri ha citato sant’Agostino. Lei stessa ne è consapevole, se è vero che ha ricordato iniziative avviate in passato ma poi non portate a compimento e rimaste lettera morta. Una consapevolezza che può essere un buon inizio, così come l’impegno (naturalmente tutto da verificare a tempo debito) di una presenza «cadenzata» del governo a Caivano.
E da qui comincia un’altra partita, ancora più difficile da vincere ma che tutti - non solo l’esecutivo o l’attuale maggioranza, bensì la totalità delle forze sane del Paese - sono tenuti a giocare nella stessa parte del campo: salvare tutte le Caivano d’Italia. Meloni ha parlato di «zone franche», di «territori abbandonati», di «periferie disagiate» da recuperare. Senza voler essere pessimisti, però, temiamo che i confini del problema siano perfino più estesi.
Più estesi anche di quelli di Palermo e di tutti gli altri luoghi dove bimbe, ragazze e donne sono vittime di sciagurati branchi; più estesi di quelli di Tor Bella Monaca, dove martedì sera qualcuno ha pensato bene di “festeggiare” con fuochi d’artificio il tentato investimento di don Antonio Coluccia, altro coraggioso prete che si batte per la legalità. Perché Caivano (o Tor Bella Monaca, lo Zen, Quarto Oggiaro...) può anche non essere un luogo, bensì un modo di pensare, uno stato mentale. Allora c’è da «bonificare», per dirla ancora con la presidente Meloni, un diffuso clima d’odio e di rancore e di violenza, per cui c’è chi l’ha pesantemente minacciata e le ha augurato la morte prima della sua visita di ieri. Per cui un servitore dello Stato in uniforme è convinto di poter dare patenti di “italianità” o di “normalità” in base al colore della pelle o all’orientamento sessuale. Per cui un consigliere regionale del suo stesso partito (per fortuna subito messo sotto procedimento disciplinare) afferma che i cittadini del Veneto dovrebbero essere bianchi. L’elenco è lungo, purtroppo, ma se «lo Stato ha fallito» – come ha detto la presidente del Consiglio – lo ha fatto soprattutto per non aver saputo ancora costruire una coscienza civica condivisa.