(Reuters)
La battaglia è persa. Il conflitto sociale rischia, però, di durare ancora a lungo. Da settimane, il Brasile ribolle. In piazza ci sono attivisti, esponenti dei movimenti popolari, sindacalisti. Uniti nella lotta alla modifica costituzionale Pec 241 promossa dal nuovo governo di Michel Temer e approvata ieri dal Senato. Con 53 voti favorevoli e 16 contrari, la misura è passata nonostante l’opposizione del 60 per cento dei cittadini, secondo gli ultimi sondaggi di Datafolha. Ad allarmare questi ultimi, il provvedimento-cardine della riforma: il congelamento per venti anni della spesa sociale.
La Pec 241 “ritocca” i 14 articoli della Costituzione che impongono agli esecutivi di destinare a settori chiave, quali sanità e istruzione, una quota minima in proporzione al Pil. Ora, gli investimenti dei prossimi due decenni vengono bloccati al livello del 2016, con il solo correttivo dell’inflazione. Motivata dalla necessità di ridurre il debito, la misura rischia di tagliare considerevolmente la spesa sociale. Il giro di vite si abbatterebbe come un macigno sulle classi popolari. Sui poveri, in primo luogo, almeno il 10 per cento della popolazione. E su quei quaranta milioni di brasiliani che non lo sono più grazie ai programmi delle recenti amministrazioni, quella di Henrique Cardoso, ma soprattutto i governi del Partido dos Trabalhadores (Pt) di Luiz Inacio Lula da Silva e Dilma Rousseff.
Sono questi “ex poveri”, la cosiddetta “nuova classe media”, i principali fruitori del servizio pubblico che verrebbe “sforbiciato”. In modo drammatico. Oltre un terzo – il 37 per cento – secondo le stime del recente studio di un gruppo di organizzazioni cattoliche (conferenza della Famiglia francescana, commissione Giustizia e pace, Caritas Brasile, commissione Pastorale della terra, Servizio francescano di giustizia, pace e ecologia). Solo per fare qualche esempio significativo, nei prossimi vent’anni i contributi per l’edilizia popolare calerebbero del 51 per cento mentre il servizio sanitario nazionale sarebbe letteralmente “smantellato”, prosegue il rapporto. Come pure il sistema educativo. Alla “dieta” – circa il 27 per cento, per il dipartimento intersindacale di studi socio-economici – si sommerebbe il blocco dei concorsi e delle assunzioni degli insegnanti. «Già così, ogni anno, su dieci milioni di diplomati, solo 1,6 trovano posto nelle università pubbliche. E 12 milioni di famiglie non trovano un alloggio decente. Che cosa accadrà con la Pec? – sottolinea ad Avvenire João Stedile, leader del movimento Sem Terra. Come farà il 15 per cento dell’attuale manodopera disoccupata e il restante 50 impiegata in nero a curarsi?». «Per non parlare del 25 per cento di ragazzi tagliati fuori dal mercato del lavoro», aggiunge Moema Miranda, direttrice dell’Istituto cittadinanza attiva Ibase.
Nelle zone rurali, poi, i contraccolpi sarebbero ancor più forti: i fondi della riforma agraria – già dimezzati quest’anno – diminuirebbero del 52 per cento. «Vediamo un netto peggioramento nella situazione dei contadini e dei nativi. I tagli si sommano ad altre misure in discussione che aprono alla vendita delle terre agli stranieri e limitano la possibilità degli indigeni di ottenere la restituzione dei poderi sottratti loro, nel tempo, dai latifondisti – denuncia Cleber César Buzzatto, segretario del Consiglio indigenista missionario (Cimi) –. Del resto, non sorprende: i grandi proprietari hanno una posizione di primo piano all’interno dell’esecutivo». La preoccupazione per i gruppi sociali più fragili ha determinato una forte presa di posizione della Chiesa. Nel documento del 27 ottobre, la Conferenza episcopale brasiliana ha chiesto al governo di non far pagare ai poveri e ai lavoratori «i conti del mancato controllo delle spese». «La Pec 241 è ingiusta e selettiva - dice ad Avvenire monsignor Guilherme Antonio Werlang, vescovo di Ipameri e presidente della Commissione per il Servizio della Carità –. Svantaggia i poveri, cioè quanti hanno maggior necessità dello Stato per vedere garantiti i propri diritti. Privilegia, invece, il capitale finanziario. La riforma non prevede un limite per il pagamento degli interessi, non tassa le grandi fortune e non implica un’inchiesta sul debito pubblico». L’esecutivo Temer, da parte sua, difende la riforma a spada tratta. L’austerità – sostiene il ministro dell’Economia Henrique Meirelles – è l’unica via d’uscita dalla recessione, in cui il Gigante latino è entrato ufficialmente nel 2015, con una contrazione del Pil del 4 per cento a causa del crollo del prezzo internazionale delle materie prime.
Quest’anno, il Fondo monetario internazionale stima la riduzione intorno al 3,3 per cento, anche se – secondo la società di consulenza Sace – per il 2017 potrebbero aversi i primi segnali di ripresa. Non senza, però – sostiene il governo – aver prima “messo ordine” nei conti pubblici. La parola chiave è “contenere” la spesa, favorendo la privatizzazione di alcuni servizi. E rendendo il Paese attraente per gli investimenti stranieri. «Solo così aumenterà l’occupazione», ha detto Temer. «Basta guardare Rio per comprendere che si tratta di una menzogna», dice senza mezzi termini Ana Moraes, del coordinamento nazionale dei Sem Terra. Lo Stato di Rio de Janeiro è il primo banco di prova della politica di rigorosa austerità. Una scelta obbligata. Con un buco di quasi cinque miliardi di euro, l’amministrazione regionale è sull’orlo della bancarotta. All’inizio di novembre, il governatore Luiz Fernando Pezão – del Partito del movimento democratico (Pmdb), lo stesso di Temer – ha dichiarato lo “stato di calamità pubblica” e approvato un pacchetto di 22 misure per far fronte all’emergenza. I contributi previdenziali sono aumentati dall’11 al 14 per cento e vari programmi sociali eliminati, gli stipendi ridotti. In ogni caso, i dipendenti pubblici non hanno ricevuto il salario di ottobre e quello di novembre arriverà in sette rate. L’impatto sulla “Cidade Maravilhosa” è devastante. Scuole e ospedali sono nel caos. La polizia non risponde alle chiamate perché non ha benzina per le auto. Il che spiega il nuovo incremento della violenza nelle zone più esposte – le favelas – incluse quelle di cui le autorità avevano ripreso il controllo con il programma di “pacificazione”, avviato nel 2008. «Questo è stato condotto in un’ottica di breve periodo, nell’imminenza del ciclo di grandi eventi, terminato ad agosto con le Olimpiadi – spiega ad Avvenire Giuseppe Ricotta, sociologo della Sapienza e ricercatore dell’Archivio Disarmo –. Le favelas sono state occupate dalla polizia. I servizi promessi, però, non sono arrivati. Il mix di crisi, delusione sociale, calo di attenzione internazionale, tagli alla sicurezza sta favorendo la “riconquista” delle enclavi da parte dei trafficanti».
Proprio in una “favela pacificata” – il Morro dos Prazeres – e ormai molto frequentata dai turisti, i narcos hanno assassinato, l’8 dicembre, l’italiano Roberto Bardella. Un fatto impensabile nella Rio dei grandi eventi. Calato il sipario sulle gare olimpiche, la città carioca gioca ora la sua sfida più ardua. Lontano dai riflettori.
Tagli e incremento della violenza non sono gli unici motori della protesta. Da novembre sono rispuntati per le città i cartelloni “In difesa di Lava Jato”. Sotto le insegne si radunano i sostenitori della “lotta dura” intrapresa dalla magistratura – in primis dal mediatico Sergio Moro – al giro di tangenti all’interno del colosso petrolifero Petrobras a beneficio dei principali partiti politici brasiliani. A marciare sono professionisti, rampolli dell’alta borghesia urbana o della classe media. In tutti, la frustrazione per la crisi economica s’è trasformata in astio verso la politica. E, in particolare, verso il protagonista indiscusso degli ultimi 15 anni: il Pt. Essi hanno, dunque, appoggiato – e in qualche misura provocato – la destituzione dell’ex presidente Rousseff, il 31 ottobre scorso. Al cambio di governo, però, non è seguito il promesso “repulisti”. Anzi, nei primi sei mesi di amministrazione, già sei ministri hanno lasciato, travolti dagli scandali. Decine di deputati della maggioranza sono sotto inchiesta. Pur politicamente incompatibili, dunque, pro e anti Pt occupano le medesime piazze. Da qui la battuta dei media locali: «Il successore di Rousseff ha mantenuto la promessa di unire il Brasile. Contro di lui».