Nel pantano insanguinato in cui minaccia di affondare ogni barlume di autorità statuale libica, qualsiasi prospettiva di azione – politica, diplomatica o di sicurezza che sia – sembra quanto mai improvvida e avventata. È facile ora, per esempio, deridere il tentativo delle Nazioni Unite di ridare al Paese un governo legittimo di unità nazionale. L’Italia ha dato con grande lealtà tutto il proprio appoggio a questo sforzo, ben sapendo che i rischi di un fallimento erano e sono fortissimi. Ma era, e rimane, la strada giusta da percorrere, dato che restituire alla Libia un governo che sia in qualche modo rappresentativo dell’intero popolo, e non solo la proiezione di milizie, tribù, fazioni, ambizioni personali è la base da cui ripartire.Purtroppo questo obiettivo appare ancora lontanissimo da raggiungere, impantanati come siamo fra i veti incrociati, le ripicche, la mancanza di responsabilità di troppi attori libici (e anche di molti regionali e internazionali). Da questo punto di vista, l’Italia è stata fra le poche potenze a guardare alla Libia come a uno Stato da preservare nella sua unitarietà. Altri attori hanno pericolosamente flirtato con le forze centrifughe che stanno lacerando il Paese. Perché la verità amara è che a tanti l’idea di uno "spacchettamento" delle regioni libiche non sembra dispiacere poi molto.Lo stesso avviene a livello militare. Da tempo in Libia operano gruppi speciali e forze militari di una pluralità di Paesi, senza un vero coordinamento e senza un progetto politico comune.
Dai bombardamenti egiziani ed emiratini, all’azione delle forze speciali francesi e inglesi si assiste a un proliferare di azioni sotto la bandiera della lotta al Daesh e alle milizie jihadiste. Il governo italiano ha recentemente deciso di autorizzare azioni simili, mentre è oggetto di pressioni fortissime da parte statunitense perché guidi una possibile coalizioni internazionale in Libia. È evidente come non sia questa l’opzione preferita dall’Italia, che avrebbe voluto fosse un governo di unità nazionale a chiedere un aiuto sul versante della sicurezza. Ma con la costante e rapida ascesa del terrorismo islamista, e con il pericolo di un suo radicamento, lo scenario strategico e di sicurezza sta peggiorando in modo troppo repentino per consentire di rimanere inattivi. Aggiungiamo poi che, davanti alla niente affatto nuova evidenza di iniziative già in corso da parte di Francia e Gran Bretagna e assunte senza bisogno di tante approvazioni internazionali, Roma non può fare la 'vergine vestale', custode tetragona del multilateralismo. Certo, occorre riflettere bene su cosa si intenda per azione militare. Questi ultimi vent’anni, fra Somalia, Kossovo, Iraq e Afghanistan ci hanno insegnato quanto sia umanamente, finanziariamente e politicamente costoso avventurarsi in 'missioni di stabilizzazione'. E come, ben che vada, il successo sia solo molto marginale. Ma è altrettanto vero che l’idea 'light', che invocano molti, ossia azioni aeree e con i droni, uso di forze speciali e di tanta tecnologia, permette 'uccisioni' eccellenti di capi terroristici, ma non stabilizza veramente la situazione sul terreno e non aiuta la nascita di un governo unitario. Di fatto, però si tratta di fiancheggiare e proteggere questa o quella milizia, questa o quella regione, con l’effetto di rafforzare l’idea della fine della Libia come entità unitaria. I nostri 'alleati' europei da tempo sembrano mostrare molto poco interesse nella sua difesa. L’Italia, al contrario, ha sempre cercato di preservarne l’unitarietà. Alla luce di tutto questo, bisogna valutare con onestà quale forma di azione militare risponda meglio a un tale progetto politico e agli interessi dei popoli libici oltre che degli italiani e – sebbene suoni retorico – della causa della pace. E quali siano le nostre capacità reali di intervento. Ma per certo, il non fare nulla, baloccandosi nell’idea che alla diffusione della cancrena terroristica e dello sfacelo statuale si possa rispondere esclusivamente con le parole, sarebbe la peggiore delle decisioni possibili.