Ho un nipote che lavora presso un’azienda di commercio on line, e racconta che risulta difficile, durante l’orario di lavoro, andare finanche al bagno. Percepisce uno stipendio modesto, 800/900 euro mensili, lavorando per 42 ore la settimana. Si è sempre controllati e quando non si raggiunge il numero di commesse prestabilito dai capi servizio si rischia una riduzione di stipendio. Ma vorrei chiedere alla ministro Lorenzin, c’è un limite massimo di caffè che il dipendente di una struttura sanitaria pubblica può prendere nell’arco della giornata lavorativa? Io spesso li conto e non sono mai inferiori a 6/7 al giorno. Vedo che non passa ora senza che si gusti un caffè bollente versato dalla caffettiera. La pausa caffè dura tutto il tempo che si desidera, senza che nessuno guardi l’orologio. I dirigenti sanitari sono tanti e in soprannumero, nessuno rinuncia ai diritti acquisiti.
Felice Colella Avellino
Sei o sette pause per il caffè al giorno sono tante, e dubito che chi lavora nella maggior parte degli ospedali italiani se le possa permettere, visti i ritmi pressanti del lavoro, e i tagli al personale. La lettera del signor Colella però mi ha fatto pensare a quelle piccole cose che fanno, anche loro, le nostre giornate. E a come anche queste piccole cose stiano cambiando. Mi è sembrato di vedere il rito del caffè, fatto ancora con la caffettiera e non con la mesta macchinetta a gettoni, fra il personale di un ospedale. Il sibilo del fornello a gas, il borbottio della caffettiera che viene su, l’aroma che invade la stanza. I cucchiaini che girano lo zucchero, le due chiacchiere fra colleghi, in amicizia. Tempo sprecato? In realtà non credo: tanto più si lavora a contatto con la malattia e la sofferenza, tanto più occorre sostenersi, reciprocamente, per non farsene sommergere. Ma al di là degli ospedali la pausa caffè è un rito di tutti gli uffici, un istante quieto in una giornata intensa, un umano tirare il fiato. Eppure in alcuni dei lavori che trovano oggi i nostri figli - contratti regolarmente precari, contratti a tempo, non garantiti, o in nero nemmeno per un caffè c’è il tempo. Li vedi, dietro le casse dei supermercati o dei grandi magazzini, questi ragazzi che attendono la pausa e poi tornano puntualissimi al lavoro, sotto gli occhi attenti dei capi. Il lettore parla di 42 ore la settimana per 800 euro al mese, e neanche il tempo per andare in bagno. Di un numero di ordini on line minimo da garantire, altrimenti si rischia. Altro che caffè, al nuovo lavoro bisogna stare attaccati con le unghie e coi denti. Viene in mente il cottimo, il numero minimo di pezzi che un operaio doveva garantire, lottando con il tornio e con le mani e con i minuti, nell’affanno. Credevamo che quei tempi fossero finiti: forse invece, sotto spoglie diverse, stanno tornando. Noi, i padri, in anni lauti abbiamo avuto troppo, abbiamo codificato ogni pretesa. Il piccolo rito del caffè era anche il respiro di un lavoro assicurato, garantito, non cronometrato. Questi ragazzi che devono chiedere il permesso per andare in bagno dicono di un mondo rovesciato nelle piccole cose. Di un’eredità smagrita, di un benessere perduto, di un lavoro diventato merce rara e preziosa – tanto che chi lo offre può pretendere, di quelle ore, ogni secondo, ogni respiro. Feste comprese. Può misurare, valutare il profitto, scartare gli improduttivi. Come fra le catene delle vecchie fabbriche del primo Novecento. Ai nostri figli amati, a volte anche viziati, lasciamo un mondo più duro e disattento all’uomo. Un mondo in cui ogni giorno, per il posto, accade anche di dover combattere. Ce ne rendiamo conto con amarezza, e quasi, a questi figli, vorremmo confusamente chieder scusa.