sabato 7 aprile 2012
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La politica e la società italiana stanno soffrendo per incapacità di futuro. Lo sguardo con cui si analizzano crisi e ricette di crescita è sempre a corto raggio, mentre sarebbe necessario, proprio perché stiamo vivendo una tempo di grande cambiamento, la virtù di saper delineare, e presto, prospettive e scenari di un nuovo modello di sviluppo e di stili di vita. E invece si continua a ragionare anche sulla base di aspettative ingenue, come l’idea che il rilancio dell’economia italiana nascerà dai grandi flussi internazionali di capitali, che dovrebbero tornare o arrivare da noi grazie ad una più flessibile regolamentazione del "mercato" del lavoro, dimenticando la evidente verità che i grandi capitali speculativi hanno troppe ragioni "for profit" per andare a investire altrove – a meno che qualcuno voglia rendere i diritti del lavoratori italiani simili a quelli della Cina o del Kenya, e battere così la concorrenza... Dovremmo, invece, cogliere l’opportunità nascosta tra le sofferenze di questo tempo per pensare la vita economica più in profondità.Cresce infatti l’impressione che politica e opinione pubblica quando parlano del lavoro si riferiscano, troppo frequentemente, a qualcosa di astratto e di sostanzialmente immaginato, anche perché la classe dirigente (compresi molti capi sindacali) è sempre più lontana dai veri luoghi del lavoro e dalle sue antiche e nuove fatiche. E chi non "vede" il lavoro fa fatica a comprenderne le tante luci e le vere ombre.C’è, in altre parole, un problema di rappresentazione pubblica del mondo del lavoro, la cui immagine corretta non arriva più a chi dovrebbe regolamentarlo. Se chi vuole e deve riformare il lavoro entrasse di più nei luoghi del lavoro, si renderebbe conto, ad esempio, che il mondo del lavoro si sta impoverendo sul piano relazionale e simbolico. Il lavoro, infatti, finché si svolge in luoghi che possiamo e vogliamo chiamare umani, vive non solo di incentivi e di sanzioni, ma si alimenta anche, e soprattutto, di riti, di simboli, di cerimonie. Nelle botteghe degli artigiani delle città italiane ed europee dei secoli scorsi, i linguaggi per riconoscere la qualità di un manufatto erano molteplici, e quelli più importanti non erano certo quelli dei denari.L’apprendista terminava il periodo di prova con un "capo d’opera" che veniva prima giudicato da una giuria e poi esposto nel palazzo delle corporazioni, per ricevere il giudizio dell’intera città. E così per gli altri passaggi di "carriera", fino allo status di "mastro", attribuito sempre all’interno di rappresentazione simboliche e in un certo senso artistiche (fino a tutto il Settecento, la parola 'artista' era usata in italiano indistintamente per gli artisti e per gli artigiani). Esisteva, poi, una grande varietà di premi (molto più che monetari) per riconoscere il valore di un’opera che dipendeva non tanto dalla qualità tecnica ma da quanto essa fosse "viva", poiché, come ci ricorda Richard Sennett nei suoi libri, al manufatto ci si rivolgeva come a un "tu" non come a un "esso".La cultura capitalistico-speculativa sta intristendo i luoghi del lavoro anche perché sta eliminando tutta questa dimensione simbolica, rituale e premiale del lavoro. In realtà, a guardar bene, le grandi imprese multinazionali sembrano ricorrere molto a riti, premi e cerimonie, perché colgono che per legare i lavoratori al destino dell’azienda (un elemento essenziale per ogni successo), non bastano i contratti: occorre la forza dei simboli. Ma queste pratiche hanno perso ogni valore intrinseco e di gratuità, e vengono usate prevalentemente (anche se non sempre) a fini strumentali, e quindi finiscono per rendere ancora più tristi e poveri i luoghi del lavoro. Il problema cruciale, invece, è che i simboli producono appartenenza a un destino comune solo quando sono gratuità, quando hanno cioè un valore intrinseco (come ben sa chi vive – e legge – bene una liturgia nelle nostre chiese). Ma una cultura che perde i densi linguaggi dei simboli-gratuità, o perché non ne coglie più il senso o perché, peggio, li strumentalizza, non sa più capire, né parlare, né motivare adeguatamente l’animale simbolico homo sapiens.La cultura della fabbrica aveva costruito, nelle sue contraddizioni, un suo codice simbolico e i suoi rituali, essenzialmente religiosi e ideologici, in buona parte ancora eredità del mondo contadino, che hanno reso sopportabile la fatica del lavoro, e consentito a centinaia di milioni di lavoratori di crescere in luoghi faticosi, duri, aspri, ma 'vivi' e quindi umani. L’indigenza simbolica del nostro tempo va oltre il mondo del lavoro, sebbene la cultura economica sia forse la principale responsabile della morte del simbolo-gratuità.Penso, per un esempio autobiografico, a molte delle nostre università dove le sedute di laurea hanno perso tutta la loro dimensione rituale (cura della cerimonia, degli abiti dei professori, e degli studenti…), e in pochi minuti, o secondi, si liquida uno dei riti di passaggio più importanti della nostra tradizione umanistica. Ed è triste, o commovente, vedere parenti, nonne e nonni che ancora continuano tenaci ad assistere alle lauree dei nipoti, ormai totalmente disorientati da queste nostre non­cerimonie, dove il posto del simbolo e del rito lo sta occupando la goliardia banale, alta espressione della cultura del frivolo, che è l’anti­simbolo. Non possiamo pretendere che questo governo riformi il lavoro a questo livello antropologico e culturale; ma come cittadini responsabili dovremmo sempre porre queste domande difficili. Saremo noi, con le nostre domande e scelte, a determinare se i luoghi del lavoro del futuro saranno più simili a "botteghe" di artigiani post-moderne e creative, o ai non-luoghi della finanza con i loro finti simboli.
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