La sede della Banca Mondiala a Washington - Epa
Il prossimo 31 dicembre scadrà la moratoria sul pagamento del debito accordato ai Paesi più poveri ed è allarme default da parte del Fondo Monetario Internazionale. Tutto comincia nella primavera 2020 quando molti Paesi industrializzati avevano sospeso le loro attività produttive per arginare la pandemia. La battuta d’arresto produsse una perdita economica stimata in 3mila miliardi di dollari, con inevitabili contraccolpi anche per i Paesi meno ricchi che registrarono un crollo delle loro esportazioni fino al 40% in alcune regioni. E subito dal Sud del mondo giunsero gravi allarmi: con minori entrate di valuta estera e un aggravio di spese sul piano sanitario, molti governi non sarebbero stati in grado di ripagare gli interessi e le quote di capitale in scadenza sui debiti che avevano verso l’estero.
Il grido di aiuto raggiunse i Paesi più ricchi che il 15 aprile 2020, nel corso di una riunione del G20, decisero un’iniziativa di soccorso ma solo per i Paesi più poveri, quelli con reddito pro capite inferiore a 1.185 dollari all’anno. In ambito ufficiale, tali Paesi sono anche detti IDA in ragione del fatto che sono ammessi a godere dei prestiti agevolati elargiti dall’agenzia della Banca Mondiale denominata International Development Assistance. In tutto si tratta di 73 nazioni, per oltre la metà localizzate in Africa, che ospitano 1,7 miliardi di persone corrispondenti al 22% della popolazione mondiale. Ma all’atto pratico solo 46 nazioni hanno accettato. L’ operazione venne battezzata DSSI, debt service suspension initiative, e consiste nella sospensione del pagamento del servizio del debito, ossia delle quote di interesse e capitale che sarebbero giunte a maturazione, prima solo per il 2020, poi anche per il 2021. Ma si tratta solo di una sospensione, ossia di un rinvio di pagamento, non di una cancellazione delle quote in scadenza. E il provvedimento ha anche un’altra restrizione. Non si applicava al debito dovuto a tutti i soggetti esteri, ma solo sul debito bilaterale, ossia sui prestiti ottenuti direttamente da altri governi. Una somma corrispondente al 34% dei 550 miliardi di dollari di debito estero complessivo gravante sui governi dei Paesi IDA. Quanto alle restanti quote, il 46% è verso organismi multilaterali come Banca Mondiale e Fondo Monetario Internazionale e l’altro 20% verso banche commerciali e altri soggetti privati.
Complessivamente la quota di debito interessata dal provvedimento assunto dal G20 ammonta a 190 miliardi di dollari, il 63% dei quali verso la Cina, a conferma del graduale disimpegno finanziario dei Paesi appartenenti al così detto Club di Parigi, un cartello di 22 nazioni che, a parte la Russia, appartengono tutti all’area occidentale. Va anche detto che dei 73 Paesi ammissibili, solo 46 hanno deciso di approfittare dell’offerta lanciata dal G20. Gli altri, appartenenti principalmente all’Asia Sud Orientale, hanno rinunciato, in parte per l’esiguità del debito bilaterale da loro detenuto, in parte perché conservavano un cattivo ricordo delle condizionalità imposte, ieri come oggi, dal Fondo Monetario Internazionale. Secondo i conteggi effettuati dalla Jubilee Debt Campaign, fra il maggio 2020 e il giugno 2021 i 46 Paesi debitori che hanno aderito all’iniziativa avrebbero dovuto godere di una sospensione di 22 miliardi di dollari perché a tanto ammontava la somma dovuta ai governi del G20 per il servizio del debito bilaterale. In realtà la sospensione si è fermata a 10,9 miliardi, il 48% del totale. Non a caso nello stesso periodo i 46 paesi in questione hanno continuato a pagare 36,4 miliardi di dollari ai creditori di cui 11 miliardi agli organismi multilaterali, 15 ai creditori privati e 10 ai governi del G20. Con- temporaneamente il loro debito ha continuato a crescere a causa delle conseguenze economiche del Covid che hanno ridotto ulteriormente le loro già magre entrate fiscali, mentre sono salite le loro spese soprattutto in ambito sanitario.
Nei prossimi tre anni le 73 nazioni che beneficiano di prestiti agevolati della Banca Mondiale dovranno sborsare 115 miliardi di dollari per saldare i loro conti 'in sospeso' Le varianti del virus che si sviluppano dove la vaccinazione non è attuata per mancanza di fondi, si ritorcono contro tutti. Ricordiamocelo La sede della Banca Mondiala a Washington / Epa
Per far fronte alla situazione, fra l’aprile 2020 e il giugno 2021, i 73 Paesi IDA hanno continuato a bussare alla porta dei creditori privati e pubblici. E mentre mancano dati sull’aumento complessivo del loro debito, si può dire che solo dagli organismi multilaterali hanno ricevuto altri 65 miliardi di nuovi prestiti. Con lo scadere della sospensione dei pagamenti accordati dal G20, i Paesi più poveri si troveranno in un collo di bottiglia. Secondo i calcoli di Eurodad, nei prossimi tre anni, dal 2022 al 2025, i 73 Paesi IDA, presi nel loro insieme, dovranno sborsare 115 miliardi di dollari per il pagamento del loro debito. Di questi, 71,5 saranno a carico dei 46 Paesi che hanno goduto della sospensione, che però dovranno aggiungere i 10,9 miliardi che hanno evitato di pagare negli anni 2020 e 2021. Di qui il grido di allarme di Kristalina Georgieva, direttrice del FMI he in un comunicato del 2 dicembre ha avvertito che «la conclusione del periodo di sospensione del servizio del debito e il probabile aumento dei tassi di interessi metteranno i Paesi più poveri in crescente difficoltà finanziaria». E ha aggiunto che le difficoltà legate al Covid porteranno il 60% dei Paesi poveri sull’orlo del collasso finanziario. Il comunicato prosegue con un invito ad assumere iniziative per evitare questa prospettiva catastrofica, ma la strada indicata non sembra all’altezza del compito.
L’unica cosa che il Fondo prospetta è l’attuazione del così detto Common Framework, un’iniziativa assunta nella riunione del G20 nel novembre 2020, come prosecuzione del progetto di sospensione del servizio del debito che termina il 31 dicembre di quest’anno. Alla lettera Common Framework, significa “struttura comune” e intende alludere proprio alla volontà di affrontare le difficoltà finanziarie dei Paesi più poveri con decisioni comuni, non ognuno per conto proprio. La procedura prevede che qualora un Paese faccia richiesta di revisione del proprio debito, tutti i creditori convergono in un comitato comune che analizza la richiesta e stabilisce, in base alla situazione specifica, se limitarsi a una ristrutturazione del debito, vale a dire una riformulazione dei tempi di restituzione del debito, se procedere a una cancellazione di parte di esso, o se assumere altre iniziative ancora. Alla conclusione del percorso di revisione, a cui partecipano anche il Fondo Monetario e la Banca Mondiale, verrà steso un accordo fra creditori e debitore, un così detto Memorandum of understanding, che precisa gli impegni di una parte e dell’altra.
Purtroppo questi generi di accordi non hanno buona fama, perché in passato sono sempre stati usati come occasione per imporre politiche economiche di tipo liberista ai Paesi debitori. Il Memorandum firmato dalla Grecia verso l’Unione Europea ne è una testimonianza. A complicare le cose c’è che i Paesi debitori devono anche fare lo sforzo per ottenere benefici da parte dei creditori privati, ma ogni tentativo fatto fino a oggi in questa direzione, perfino dagli organismi multilaterali, non ha portato alcun frutto. Insomma la procedura si presenta lunga, complessa e senza alcuna garanzia di riuscita. Forse sarà anche per questo se al momento i Paesi che hanno fatto richiesta di revisione del proprio debito sono solo tre: Etiopia, Ciad e Zambia. Ma per ora nessuno di loro è arrivato a fine percorso e dovremo attendere altro tempo per capire se il Common Framework rappresenta una svolta o se invece è un ennesimo meccanismo per salvare la faccia, ma non l’umanità. Le varianti di Covid che si sviluppano dove la vaccinazione non viene attuata per mancanza di fondi, cioè nei Paesi più poveri, poi si ritorcono contro tutti, ricchi compresi. Faremmo meglio a ricordarcelo più spesso.