Nelle lotte per il lavoro c’è una drammatica bellezza che affascina. Il gesto di colleghi e compagni d’una fabbrica che si uniscono, alzano la testa per difendere non tanto uno stipendio, ma più spesso la propria dignità, porta inscritto in sé una forma di nobiltà. Perché è espressione di una solidarietà, che significa sentirsi parte d’una comunità, sapersi prender cura l’uno dell’altro, disposti anche a pagare un prezzo per questa comunanza di vita e di destini. È una bellezza che invece non c’è nei blocchi minacciati al porto di Trieste o sulle autostrade a opera di una parte degli autotrasportatori. E il perché è presto detto: ad accendere queste lotte c’è quantomeno un travisamento della solidarietà, se non più semplicemente l’idea corporativa di una minoranza che intende usare il proprio piccolo potere per imporre qualcosa al governo pro tempore e alla maggioranza dei cittadini. Nello specifico, la cancellazione di una norma di legge a tutela della salute pubblica. Con l’aggravante di abusare della retorica di una presunta 'dittatura sanitaria'.
La prima e vera solidarietà, fra lavoratori, è in realtà la tutela della salute di tutti e di ciascuno. Imporre blocchi contro il Green pass, invece, è come fare le barricate contro la sicurezza, come opporsi all’obbligo delle imbragature, del caschetto o delle cinture di sicurezza in auto. È vero anche queste ultime, in casi assai limitati provocano danni – fratture e perfino la morte quando non si riescono a sganciare per uscire da una vettura che precipita – ma quasi sempre ci salvano la vita. Così è per i vaccini, bastano tre cifre per comprenderlo: senza di essi ci sono state oltre 27.000 morti per ogni milione di casi; la profilassi evita il rischio morte nel 98% dei casi; correlati al vaccino ci sono stati 0,19 decessi per milione di dosi. Morti da piangere, certo. Ma una sincera solidarietà non può prescindere dalla razionalità che questi numeri esplicitano, altrimenti diventa mistificazione e avventurismo.
Prima della solidarietà per qualche compagno che ha deciso di non vaccinarsi né vuole sottoporsi alla trafila dei tamponi per ottenere il Green pass, viene quella verso gli altri colleghi che invece alla profilassi si sono sottoposti e che vorrebbero lavorare con una maggiore tranquillità. E pure nei confronti di tutti gli altri lavoratori italiani, dipendenti e autonomi, che nella stragrande maggioranza hanno scelto, vaccinandosi, di tutelare assieme la propria e l’altrui salute. In un anno e mezzo di lockdown, in tanti hanno subito decurtazioni dello stipendio o degli incassi e non vorrebbero oggi né assistere a nuove chiusure delle attività per una ripresa di contagi e decessi né trovarsi con un fermo della propria fabbrica o negozio per i blocchi delle merci nei nostri porti.
E men che meno si può invocare in questo contesto la soppressione della libertà. Perché non essendoci obbligo di legge, resta la possibilità per chi non intende vaccinarsi di non farlo e di continuare a lavorare. Certo, pagando un prezzo: quello dell’effettuazione dei tamponi. Ma tutte le libertà hanno un prezzo da pagare, così come tutte le scelte comportano una rinuncia. I nostri figli da tempo ottemperano a un obbligo vaccinale piuttosto complesso, pena l’esclusione dal diritto allo studio. È per un bene superiore, però: quello appunto di tutelare la loro vita, quella di chi non può vaccinarsi per motivi medici e pure la salute dell’intera comunità degli adulti. Questa, sì, è solidarietà. Non ci sono dunque argomenti nobili o anche solo validi che possano sostenere la decisione di bloccare le attività nei porti o sulle strade. Piuttosto, una sincera e razionale solidarietà dovrebbe farci guardare a chi la profilassi non può permettersela. Organizzando uno sciopero – virtuale – per rivendicare licenze obbligatorie di produzione dei vaccini nei Paesi in via di sviluppo. I compagni di lavoro, fratelli nostri, sono milioni oltre il ristretto orizzonte d’una banchina del porto.