Strana bestia, la Camera dei Comuni. I leader dei tories ormai dovrebbero saperlo, viste le disavventure e la puntuale disfatta politica di personaggi come David Cameron e Theresa May ogni volta che hanno provato a stuzzicarla (la May vanta il record di tre consecutive bocciature dell’accordo raggiunto con l’Unione Europea sull’uscita morbida del Regno Unito). Ma Boris Johnson, l’impetuoso rascal (chiamarlo 'monello' è un eufemismo: briccone, con il dovuto rispetto, gli si attaglierebbe a meraviglia) dalla chioma paglierina, l’uomo che fino a due giorni fa danzava sull’esilissima prevalenza numerica di un solo voto è riuscito in un sol colpo a perdere la maggioranza parlamentare con l’abiura dell’ex sottosegretario (e fiero avversario della Brexit) Philip Lee, assistere al tradimento di ventuno deputati conservatori (puntualmente espulsi dal partito, tra cui l’ex Cancelliere dello Scacchiere Philip Hammand e il corpulento nipote di Winston Churchill Nick Soames) e vedersi balenare davanti agli occhi un bivio ricco di incognite: sfiducia dell’opposizione e conseguente ricorso alle urne oppure una legge che vincoli il governo a evitare il no deal, l’uscita traumatica dall’Unione Europea senza alcun accordo.
Nella sua convulsa cavalcata verso la Brexit ad ogni costo (do or die) – condita di sovrabbondanti dosi di populismo e di retorica sovranista, ingredienti questi ultimi particolarmente apprezzati da Donald Trump, il quale non fa mistero di invidiargli la prorogation che gli consente di poter sospendere i lavori parlamentari – BoJo punta alla data del 31 ottobre per recidere definitivamente il legame fra il Regno Unito e l’Europa. «I will never surrender», io non mi arrenderò mai, declama nella sua mitragliante eloquenza affinata nell’infanzia dorata a Eton ad imitazione di quel motto di Churchill talmente celebre e celebrato da risultare inutilmente teatrale in una disputa come quella fra il deal e il no deal: perché, come gli ricorda con gelido humour il leader laburista Jeremy Corbyn, attualmente non c’è in corso una guerra fra l’Europa e la Corona britannica, semmai fra il pasionario del leave Johnson e il tempo che occorre all’opinione pubblica per calcolare i danni reali che un’uscita sbattendo la porta comporterebbe (o comporterà) per l’economia britannica. La sterlina già ne anticipa deprezzandosi le febbri maligne, la City teme le parole suadenti che promettono «molteplici soluzioni per aggirare il problema del backstop». Il cabaret parlamentare di BoJo è indiscutibilmente strepitoso, la sua eloquenza e la sua sferzante ironia non hanno rivali, i suoi dignitosi e misurati confratelli di partito che lo hanno preceduto a Downing Street sbiadiscono di fronte al turbinoso arsenale di scintille retoriche («Lasciamo la parola al popolo ») e di guizzi verbali che promanano dai suoi discorsi infuocati. Il sovranismo populista è anche questo: i Trump, le Le Pen, i Salvini lo sanno molto bene e ne fanno ampio uso.
Dietro l’angolo tuttavia si intravedono gli appuntamenti che rischiano di decidere il destino politico di BoJo. A cominciare dalle minacciate elezioni anticipate (bocciate, però, ieri dai Comuni), ennesimo referendum popolare sul governo, che finora ha massacrato tutti i leader conservatori che hanno provato a farvi ricorso. Dovesse uscirne sconfitto, la strada obbligata per lui sarà quella che conduce a Buckingham Palace, per restituire la carica di primo ministro nelle mani della regina. La stessa che – obtorto collo, sembra di capire – gli ha dovuto concedere la sospensione dei lavori parlamentari. Ma non possiamo escludere un rinvio della Brexit al 31 gennaio e neppure – siamo nella fantapolitica pura, ma di fatto ogni possibilità è aperta – una riedizione del referendum. Nella forsennata scorribanda di Boris Johnson attraverso il caos politico e civile che la Brexit ha prodotto nel Paese si stagliano i fantasmi del futuro prossimo che lui fa di tutto per nascondere: il pesante pedaggio da 39 miliardi di sterline da pagare all’Europa, il sicuro collasso della sanità pubblica (di fatto in mano a personale immigrato che non ha certezza di poter rimanere), la contrazione del 2,5% dell’economia nazionale. Ma BoJo – e riconosciamogli una sulfurea e quasi ammirevole improntitudine – continua ad affermare: «La Gran Bretagna è il miglior posto dove vivere sulla Terra».