In quest’epoca di cambiamenti epocali – per dirla con papa Francesco – uno tra essi riguarda il rapporto tra l’uomo e il suo lavoro. Oggi pare affermarsi un nuovo paradigma secondo cui il lavoro non sia più qualcosa di necessario all’uomo. Quello che nella nostra cultura giudaico-cristiana era la naturale evoluzione del precetto biblico: «Con il sudore del tuo volto mangerai il pane» (Genesi, 3, 19) sembra oggi non essere più valido; in qualche misura il lavoro sta diventando un accessorio. I rapporti di lavoro sempre più discontinui, frammentari, precari, raccontano un lavoro che non è più qualcosa che accompagna tutta la vita adulta; si lavora quando ce n’è o quando serve, il lavoro è sempre più un mezzo – uno dei mezzi possibili – per garantire il sostentamento, più uno strumento di reddito che di realizzazione e di costruzione. Questo cambiamento di prospettiva non è in effetti una novità. In molte civiltà antiche essere lavoratore non era uno dei requisiti del cittadino, il lavoro era degli schiavi. Certamente però sembrava che con il cristianesimo il lavorare diventasse la regola e una regola – potremmo dire – nobilitante: attraverso il lavoro l’uomo era fatto in qualche modo pari al Creatore: «Il Signore Dio prese l’uomo e lo pose nel giardino di Eden, perché lo coltivasse e lo custodisse» (Genesi, 2, 15).
Ma in tempi di Gig economia, l’economia dei 'lavoretti', cosa sta accadendo? Questo rapporto stabile tra l’uomo e il suo lavoro sembra interrotto. L’incredibile sviluppo tecnologico sembra mettere da parte la necessità del lavoro umano, se non per pochi ruoli creativi o di governo, sempre più difficile da inquadrare come veri e propri lavori. Il mito delle aziende «dot-com» che pare affollare la fantasia, l’ideale lavorativo dei giovani di oggi rimanda a rappresentazioni del lavoro molto lontane da quelle proposte dal Genesi, prima, da San Paolo e San Benedetto poi. Ancora, la disponibilità di strumenti finanziari accessibili su larga scala e lo sviluppo del trading on line, strumento almeno apparentemente - di grande partecipazione e democrazia finanziaria, sembrano potenzialmente allontanare dall’uomo la necessità del lavorare. Così un po’ alla volta il rapporto tra l’uomo e il suo lavoro si indebolisce e, in questo contesto, non risulta poi strano che si affermi il sogno di una vita senza lavoro, di una 'liberazione' dal lavoro.
Si può cogliere a questo proposito una inedita complicità tra alcune grandi imprese, che – tutto sommato – farebbero volentieri a meno dell’uomo (in fondo il capitale umano è quello più difficile da gestire e i cui ritorni sono meno prevedibili e quantificabili) e lavoratori, nel frattempo trasformati in consumatori. Fino ad oggi però questa trasformazione presentava un problema: per consumare ci vuole reddito e il reddito era – per la gran parte delle persone – legato al lavoro. Così ecco affacciarsi due soluzioni che paiono il classico uovo di Colombo: da una parte l’idea di una tassazione, anche molto spinta, verso quelle aziende che non usano del lavoro umano, dall’altra il risuonare da più parti dell’ipotesi di un reddito, 'di cittadinanza', sostitutivo di quello da lavoro. Credo che in qualche modo il problema del reddito vada affrontato anche sul fronte politico. La frammentazione dei percorsi di vita probabilmente porterà con sé periodi più o meno lunghi di inattività lavorativa, accompagnati – speriamo – da un processo di riqualificazione formativa, per cui va immaginata una forma di reddito che renda sostenibile alle persone queste diverse circostanze di vita. Però teorizzare l’opportunità di uno strumento reddituale non accanto, ma invece di quello rappresentato dal lavoro, è un cambiamento davvero radicale, che va contro ad una antropologia del lavoro che si è affermata negli ultimi duemila anni. Una antropologia che – pur non negando la fatica e il sacrificio propri del lavorare – li ha letti in positivo fondando il fiorire di Cattedrali, di esplorazioni, di imprese e innovazioni, nonché il fiorire di una società capace di mutualità e solidarietà, almeno nella nostra Europa.
La domanda quindi che nasce è se sia proprio vero che si possa sostituire il lavoro dell’uomo con altre fonti di reddito? Tentare di rispondere apre a due ulteriori questioni. La prima è pragmatica: è davvero difficile prevedere con precisione quanto le trasformazioni in atto renderanno effettivamente superata la presenza umana nel lavoro. Uno dei principali problemi che i decisori politici si troveranno ad affrontare a riguardo sarà evitare che si allarghi sempre più la forbice della diseguaglianza. Oggi lo sviluppo sociale a cui ci eravamo abituati si è interrotto: l’ascensore è arrivato all'ultimo piano e la generazione attuale sarà la prima a guadagnare meno e ad avere un benessere inferiore di quelle precedenti. Se poi si tratti di un cambiamento irreversibile, sarà questione che impegnerà potentemente la politica dei prossimi anni. A prescindere dal tema reddituale e di welfare, l’altra questione sottesa alla domanda di prima è quali siano i lavori di cui ci sia effettivamente bisogno. I media continuano a sfornare elenchi di lavori che non ci saranno più nei prossimi anni e non di rado si ha la sensazione che essi siano la maggior parte. È tuttavia un fatto – e su questo pagine si è argomentato e documentato molto a tal proposito – che ci siano tutta una serie di attività lavorative in qualche modo marginalizzate nell’alveo delle scelte del mercato del lavoro, che appartengono alla grande famiglia dei servizi alla persona: assistenza ed educazione sono ambiti in cui il lavoro umano continua, per tanti motivi, ad avere una posizione centrale, per cui è lecito ritenere che – pur nel contesto della grande trasformazione, che chiederà anche ad esse di cambiare – saranno ambiti di futura occupazione, forse addirittura in ascesa.
Si tratta però di ambiti professionali in cui è possibile rilevare due grandi aree problematiche. La prima è che si tratta di occupazioni in cui il livello retributivo è decisamente inferiore – direi in modo immorale – del valore portato e prodotto. Non è giusto che chi si occupa della formazione di un bambino abbia una retribuzione inferiore di chi monta uno scaldabagno o la scocca di un’automobile. Non è giusto non perché sia un disvalore occuparsi della carrozzeria di un’auto, ma perché 'manutenere' una persona è qualcosa dotato di un valore proprio e sociale più elevato. L’altro problema è che si tratta di mestieri e professioni che hanno perso in questi ultimi anni di reputazione sociale, anche e soprattutto per il peggioramento dello status di chi ci opera. Non a caso sono pochi i giovani che vogliono fare gli insegnanti o gli educatori, pochissimi quelli che vogliono occuparsi dell’assistenza di base alla persona. Credo quindi che per provare a riportare una centralità del lavoro nella vita delle persone (e anche della persona nel lavoro) dovremo innanzitutto chiederci di quali lavori ci sarà davvero bisogno, quindi aiutare le persone a tornare a comprendere cosa ci sia di interessante nei lavori di cui c’è e ci sarà sempre bisogno. È quest’ultimo un tema fortemente educativo: si tratta di uscire dalla dinamica motivazionale del successo e dell’interesse, per rivolgersi invece alla dimensione della generatività e dell’utilità, intrinseche nel lavorare. Pare, invece, che i messaggi che oggi si mandano vadano nella direzione opposta: di fronte a un diminuito interesse verso il lavoro, si ritiene che i lavori davvero interessanti e - di conseguenza - desiderabili siano sempre meno.