martedì 3 aprile 2012
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​In un’Europa, e in un Paese come il nostro, che si misura oggi con sacche estese e impensate di precarietà e di ristrettezze; in cui cadono i miti dello sviluppo economico all’infinito, crollano le utopie dei consumi e del benessere esponenziale, un senso di smarrimento e inquietudine pervade le coscienze individuali e collettive. Dove stiamo andando? Con quali prospettive per i nostri figli? Il peggio è passato o deve ancora venire? La crisi economica ci penetra dentro, ci rende precario il presente, incerto il futuro. Non suscita solo ribellione. Ma anche riflessione: il pensiero – o anche solo il dubbio – che non sia questione soltanto di crolli di produzione e di poteri d’acquisto ma, ben più in profondità, di crisi di modelli, costumi e stili di vita. La convinzione, di conseguenza, che la soluzione non può venire solo da un ri-aggiustamento del welfare e dal rilancio del circolo produzione-salari-consumi; ma da una riforma in radice – il Vangelo dice da una conversione – d’ordine morale e spirituale dei comportamenti e dei pensieri che li generano. Una riforma morale: c’è bisogno di giustizia, di onestà, di sobrietà, di solidarietà.Bisogno di giustizia nel rapporto società-istituzioni: la prima costituita da cittadini, le seconde rappresentate da politici e amministratori. Giustizia contributiva da parte dei primi, volta a soddisfare e non sottrarsi ai propri tributi e apporti al bene della polis. Giustizia distributiva da parte dei secondi, volta ad arginare e contrastare la massa di corruzione e perversione della politica e riaccreditarla come arte del bene comune. Bisogno di onestà, volto al riconoscimento e al rispetto della verità e del bene morale, nonostante la perdita o il non-conseguimento di risultati e obiettivi allettanti e vantaggiosi. Bisogno di sobrietà nell’acquisizione e fruizione dei beni, per un uso moderato e solidale e non avido e dissipatorio. Bisogno di solidarietà nella vicinanza e nella condivisione con chi non ha o ha meno o è rimasto indietro. E nel contrastare una mentalità e una prassi di sopruso, cupidigia e avarizia con una cultura della bontà, probità e gratuità. Ma per osare questo – per anteporre la rettitudine al tornaconto, per convertirsi al primato del bene morale sul bene utile e piacevole – occorrono grandi motivazioni spirituali, che caricano le molle della coscienza e della libertà morale: occorre un background e un surround di significati e valori di cui una cultura secolarista è gravemente deficitaria. Occorre tornare a quelle riserve di logos e di telos, di senso cioè e di fine, che dall’avvento del cristianesimo hanno innervato e ispirato la cultura occidentale, europea e italiana in particolare. Occorre tornare alla sapienza del Vangelo, che in un tempo di crisi prende forma crucis. San Paolo l’ha chiamata sapienza della croce, spiegata da Gesù come logica del perdere per ritrovare, del morire per risorgere, del trarre beneficio dalla perdita. Logica enunciata con simbolismo efficace dall’allegoria del seme: «Se il chicco di grano, caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto». La Chiesa ce lo dice con la liturgia della Settimana Santa e della Pasqua, con cui ci coinvolge nel patire e morire di Cristo per esperire la vittoria piena di vita, di amore e di speranza della Pasqua. Ci coinvolge con tutte le nostre miserie, i nostri disagi, le crisi che ci tocca attraversare, per non lasciarci schiacciare, ma imparare da esse. Come Cristo, il quale – dice la Lettera agli Ebrei – «imparò l’obbedienza dalle cose che patì». Alla scuola della croce, nella sequela del Crocifisso, impariamo anche noi dalle «cose patite»: impariamo l’obbedienza a Dio. Ci «consegniamo» col Crocifisso «nelle mani del Padre», e in questo abbandono – dice il Papa – s’accende la stella della speranza. La speranza più grande – la vita che vince la morte, il bene più forte del male – pronunciata dalla risurrezione del Crocifisso. Di questa speranza abbiamo un vitale bisogno tra le angustie e le contraddizioni del presente, per affrontare e non soccombere, e preferire l’onestà alla furbizia, la giustizia al tornaconto, la fedeltà e la gratuità alla doppiezza e all’opportunismo. Ave crux spes unica  – proclama la Chiesa il Venerdì Santo. Non c’è dolorismo nella celebrazione e predicazione della croce. C’è il realismo cristiano, che si fa vicino a tutte le croci e i crocifissi del mondo, per sottrarli al potere disperante del male. Non l’ha inventata Cristo la croce (l’hanno inventata i Romani), così come non è Dio (è la malvagità dell’uomo) all’origine del male. Ma Cristo ha trasformato la croce e, nella compagnia del Crocifisso, ogni croce è convertibile in seme di bene. Nei giorni "santi" dell’anno liturgico, la Chiesa ci chiama a entrare nella passione e morte di Cristo: chiamati a "patire", "morire", come il seme, nel terreno della storia, per farne esplodere le potenzialità vitali e produrre frutti di verità, di giustizia, di santità, di amore. A questa sapienza, piena di speranza, della croce ha attinto nei secoli la cultura europea. Al punto da diventarne il segno più rappresentato e rappresentativo. La croce è un più di umanità.
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