martedì 13 gennaio 2015
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In questi giorni si moltiplicano interpretazioni e giudizi sui fatti di Francia. È un affastellarsi di analisi e commenti che cercano di dare ragione di quanto è accaduto, delle cause immediate e di quelle più remote. Si dice che non bisogna fare d’ogni erba un fascio, non si deve guardare all’islam come a un gigantesco incubatore del terrorismo. Si aggiunge che il mondo musulmano deve fare una grande esame di coscienza per mettere ai margini chi usa la fede come una scimitarra per combattere i nemici. Si osserva che è stata colpita al cuore la patria di Voltaire, al quale è attribuita una massima (in realtà della sua biografa Hall) molto eloquente: «Non condivido la tua idea, ma darei la vita perché tu la possa esprimere» . Più d’uno eccepisce che la vera libertà di espressione non può essere disgiunta dall’esercizio della responsabilità, dal rispetto per quanti professano un ideale religioso e non devono essere colpiti dei loro valori più sacri. Ma queste pur condivisibili considerazioni, come pure l’indignazione e la paura che si respirano in questi giorni, potrebbero non bastare a rispondere alla grande domanda: come stare di fronte a tutto questo? Come non rimanere prigionieri dell’odio, del dolore o della disperazione?  In Francia – e in misura non meno cruenta e non meno emblematica in Nigeria, in Siria, in Iraq e in altri luoghi dove si continua a fare strame della vita – è stato colpito anzitutto il valore sacro e irrinunciabile della persona. E qui va detto – senza presunzione alcuna, ma per dovere di verità e perché ci sono momenti (e questo è uno di quei momenti) in cui si deve avere il coraggio di dire a chiare lettere ciò che troppe volte si censura o si dice solo a mezza bocca – che il valore della persona come fondativo della convivenza umana è entrato nella storia con il cristianesimo. Prima non c’era, prima ognuno veniva considerato e trattato in base alla categoria alla quale apparteneva. Dopo Cristo l’uomo vale in quanto uomo, non per la sua etnia, per il colore della pelle, per il potere che detiene e neppure, ultimamente, per la religione che professa. È in virtù della nostra umanità che possiamo dirci uguali e fratelli, e che abbiamo diritto alla stessa libertà. Liberté-egalité-fraternité, la triade proclamata dalla Rivoluzione francese che in questi giorni viene evocata, ha in questo senso una profonda radice cristiana, anche se non si possono dimenticare gli orrori compiuti proprio in nome di quella triade, a conferma di quanto un ideale possa corrompersi e grondare sangue quando dimentica la sua origine, si erge a criterio assoluto e diventa pretesto per affermare il potere di un gruppo sull’altro. 

 È a partire da questa rivoluzionaria novità introdotta nella storia dal cristianesimo che possiamo sentirci tutti legati da un comune destino, possiamo affermare che le differenze non sono un’obiezione, perché prima della diversità c’è una comunanza. C’è qualcosa che ci rende compagni di cammino, capaci di guardare l’altro come qualcuno che permette il nostro compimento anziché come una minaccia alla nostra stessa esistenza. Non posso realizzare pienamente il mio io se non considero che c’è un 'tu' con cui fare i conti. Non c’è identità che possa pienamente realizzarsi senza il confronto con l’alteritá.  In quest’ora tragica e rivelatrice, i cristiani sono investiti da una grande responsabilità: testimoniare l’attualità di quell’Uomo morto sulla croce duemila anni fa, che ha mostrato con il suo sangue fino a dove può arrivare l’amore, e continua a ricordarci che abbiamo tutti bisogno di Qualcuno che risponda al nostro anelito di bene e di risurrezione e ci liberi dal male in agguato nel cuore di ogni uomo. Perché chi è convinto che il male è fuori di sé, ha sempre bisogno di un nemico contro cui combattere.

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