La ricostruzione a tempo di record invocata dal sindaco di Amatrice nell’incontro con il presidente Mattarella si può fare. Più passano le ore e più emergono le somiglianze con i terremoti di Umbria e Marche (1997), L’Aquila (2009) ed Emilia (2012). Con buona pace di chi deve azzuffarsi per contratto, non si tratta di analogie o differenze politiche. La scelta di rinunciare alla soluzione delle new town, ad esempio, così come quella di affidare un ruolo primario ai sindaci nella ricostruzione delle aree colpite – coordinati dal commissario di governo, probabilmente Vasco Errani – non dipendono dalla maggioranza parlamentare, ma dal fatto che tutti noi impariamo dagli errori commessi. E anche lo Stato impara. Ci sono poi altri fattori che inducono a sperare. Ad esempio, anche se il "cratere sismico" di Amatrice è paragonabile a quello dell’Aquila, i danni sono più concentrati per effetto della minore urbanizzazione dell’area colpita, il che comporta un minor numero di sfollati. La maggiore densità di vittime – stesso numero di morti su una popolazione coinvolta che è un decimo di quella del terremoto abruzzese – dipende invece dalla massiccia presenza di turisti nella notte della tragedia; all’Aquila il 6 aprile erano già iniziate le vacanze della Pasqua (12 aprile 2009), circostanza che ha salvato molti studenti. Nel Reatino, gli effetti distruttivi si sono concentrati in loco perché l’ipocentro si trovava in superficie (4 km di profondità ad Amatrice, 8 km all’Aquila) e si è verificato, per via della morfologia montuosa, un 'effetto cresta'. Ciò detto, anche in questo caso, le onde telluriche sono arrivate lontano e hanno provocato come in passato danni minori ma non trascurabili. Nelle prossime settimane, nell’elenco degli aventi diritto ai contributi pubblici spunteranno decine di Comuni di cui non abbiamo sentito parlare nella notte della tragedia. Se è evidente che la concentrazione del danno più grave, quello che comporta la totale inagibilità degli immobili, facilita la ricostruzione record, non è altrettanto scontato che alcune scelte annunciate nelle ore calde dell’emergenza debbano essere confermate dalle ordinanze successive. Un ostacolo da affrontare, se si vuole accelerare le operazioni, è quello del finanziamento dei lavori sulle seconde case, che in questo caso sono la maggioranza. Un altro tema è la declinazione dell’idea di ricostruire ciò che è crollato 'dov’era e com’era'. È la formula adottata sia all’Aquila (le new town non sono mai state un’alternativa, bensì insediamenti provvisori) che in Emilia, seppure con una flessibilità diversa. È un principio sacrosanto se significa che non si vogliono delocalizzare le comunità e ferirne i sentimenti profondi. È una scelta obbligata nel caso dei monumenti, per quanto anche in quell’ambito non guasterebbe fin da subito un sereno esame delle priorità, che solitamente viene imposto in un secondo tempo dai vincoli finanziari. È invece una formula sbagliata sul piano urbanistico, perché, com’è avvenuto all’Aquila, può condurre alla ricostruzione di veri obbrobri architettonici a costi altissimi. Ed è un’aberrazione se conduce a ricostruire in aree sulla cui pericolosità non si è ancora fatta piena luce. Infine, è una falsa promessa, perché il più delle volte amplifica tempi e costi, allontanando il traguardo. L’osservanza assoluta di questo slogan significa dire addio alla ricostruzione record.