Il più grande hot spot nella storia delle migrazioni moderne è un isolotto nella baia di New York, a un miglio dalla punta di Manhattan. In un quarto di secolo a Ellis Island sbarcarono 12 milioni di persone provenienti dall’Europa. Molti si fermavano, altri proseguivano il viaggio. Dei 7 milioni di abitanti che la città contava nel 1930, 3 milioni erano nati all’estero: venivano dall’Italia e dall’Irlanda, dalla Germania e dai Paesi scandinavi, erano polacchi, ungheresi, russi, tantissimi gli ebrei in cerca di un luogo sicuro in cui ricominciare. All’inizio dovevi farti il purgatorio di Ellis Island, dove ti scaricava la nave al termine della lunga traversata dell’Atlantico. Poi c’era lo squallore dei tenement sovraffollati, e nei bassifondi sudici della Bowery e del Lower East Side proliferavano miseria e soprusi. Intanto si stava formando quel formidabile melting pot – leggi: coesistenza di diverse comunità sulla base di valori e regole condivise – per cui New York è ancora oggi la capitale culturale e finanziaria del mondo. Noi, invece, non abbiamo ancora deciso che società vogliamo essere di qui ai prossimi vent’anni e la questione immigrazione continua a essere fortemente divisiva. Da una parte ci sono gli argomenti della ragione, dall’altra una emozione legittima e potente come la paura.
Gli esodi migratori del nostro tempo rimarranno immortalati nelle immagini drammatiche di migliaia di profughi che solcano il mare su barconi di fortuna o che si ammassano lungo le frontiere europee, privati di tutto. Saranno raccontati dalle stime del numero di anonimi cadaveri risospinti sulle spiagge dalle onde o inghiottiti dalle acque. L’Acnur ha calcolato in 10mila i morti nel Mediterraneo dall’inizio del 2014 a oggi. Impossibile restare indifferenti: il 58% dei cittadini europei ora considera l’immigrazione il problema numero uno con cui la Ue deve fare i conti – una preoccupazione ancora più pressante della difficile situazione economica che stiamo vivendo (al primo posto per il 21%) e dell’occupazione (17%). Ci sono innanzitutto gli argomenti della ragione. Parlando degli sbarchi sulle nostre coste, il presidente del Consiglio, Matteo Renzi, getta acqua sul fuoco: «Non c’è nessuna invasione, checché ne pensino i professionisti dell’allarme sociale». E non ha torto: 131mila sbarchi a settembre dall’inizio dell’anno, 129mila nello stesso periodo dell’anno scorso, 135mila l’anno prima.
La cancelliera tedesca, Angela Merkel, ha detto di essere contraria all’idea di mettere un tetto all’arrivo dei rifugiati, pagando un prezzo politico per questo. Intanto in Europa si è persa tra i tanti dossier aperti la proposta italiana del Migration Compact: il piano per contenere i flussi migratori dall’Africa che prevede risorse per 8 miliardi di euro per il periodo 2016-20 da utilizzare tramite accordi con i paesi coinvolti.
La ragione ci dice anche che le diversità sono preziose per una fisiologia sociale positiva: una società che funziona bene le stempera, le valorizza, le fa diventare una ricchezza. E sta attenta a evitare il rischio che le differenze diventino distanze, disconnessioni urbanistiche e relazionali, e poi si trasformino in fratture, cadendo così nella patologia sociale. La ragione ci dice poi che a un Paese sull’orlo del default demografico come l’Italia e a un continente europeo che invecchia rapidamente gli immigrati servono, sono indispensabili, assicureranno il lavoro e le pensioni di domani.
Certo, il nostro sistema di gestione delle emergenze è sottoposto a uno stress continuato: le persone ospitate nelle strutture di accoglienza sono aumentate dalle 22mila del 2013 alle 159mila di oggi – numeri destinati a crescere nelle prossime settimane. Certo, sono tutt’altro che rare le situazioni di sfruttamento e di indigenza, se pensi a quei poveri diavoli alle prese con le cassette di arance o con la raccolta dei pomodori nelle campagne del Sud per guadagnarsi qualche euro a giornata. Però esiste uno specifico modello di integrazione italiano che ci differenzia rispetto ai fenomeni di concentrazione etnica, disagio sociale e radicalizzazione identitaria che caratterizzano le banlieues parigine o le innercities londinesi.
I 5 milioni di stranieri che vivono stabilmente sul nostro territorio (l’8,3% della popolazione complessiva), appartenenti a circa 200 nazionalità diverse, sono per la gran parte proiettati lungo una traiettoria di ascensione sociale, all’inseguimento della condizione di ceto medio. I titolari d’impresa stranieri sono aumentati del 49% dal 2008 a oggi (e ti vengono in mente i negozi di frutta e verdura che riempiono le nostre città, i take away, le piccole ditte edili), mentre nello stesso periodo le imprese guidate da italiani diminuivano sotto i colpi della crisi dell’11%. I cinesi all’opera nei capannoni di Prato ci ricordano gli stracciaroli pratesi che negli anni 70 del Novecento lavoravano ai telai nei sottoscala e stavano sviluppando silenziosamente il distretto del tessile, oppure gli scarpari marchigiani divenuti poi campioni del made in Italy.
Abbiamo imparato che nel cuore dell’Europa, invece, l’islam radicale può diventare il veicolo del rancore di quelle seconde e terze generazioni che vivono la percezione di una promessa di ascesa sociale tradita: quella promessa che aveva spinto i loro genitori a partire dal Maghreb attratti dall’industrializzazione e dal benessere francesi. E abbiamo scoperto che quei luoghi possono diventare la piattaforma logistica per foreign fighters e terroristi arruolati che ripudiano i nostri valori e il nostro modello di convivenza. Ma gli argomenti della ragione non suonano persuasivi di fronte alla paura: la paura dell’altro come minaccia alla propria identità, la paura dello spaesamento, la paura che un bel giorno guardandoci allo specchio non ci riconosceremo più, insomma la paura di un’apocalisse culturale prossima ventura. Quella paura di cui si alimentano le imprese politiche populiste che hanno sempre più presa in tutta l’Europa. Quella identità che si pensa di difendere e preservare alzando muri, barriere e fili spinati, oppure invocando nuove Brexit.
E' per questo che lo scorso 2 ottobre i cittadini ungheresi si sono pronunciati attraverso un referendum, indetto dal premier conservatore Viktor Orbàn, sulla ripartizione delle quote di profughi e migranti decisa dall’esecutivo europeo (consultazione che non ha raggiunto il quorum richiesto, ndr). Ed è per questo che il 4 dicembre si ripeterà il voto del secondo turno delle presidenziali austriache, come chiesto dalla destra ultranazionalista, che lo scorso maggio aveva sfiorato la vittoria. Ed è per questo che la globalizzazione – con il progressivo allargamento dei confini e delle frontiere trainato dai liberi scambi – continua a dividere anche gli italiani: conserva un valore positivo solo per il 46%, il 41% ora ne dà un giudizio negativo, il 13% è incerto.
Commetteremmo un grosso sbaglio se ci facessimo bastare gli argomenti della ragione e non prendessimo sul serio la paura, liquidandola come l’espressione di un razzismo ottuso cavalcato da un estremismo politico nazionalista e xenofobo. La paura è il riflesso dell’inconscio collettivo e ci sollecita a rispondere all’interrogativo fondamentale: che società vogliamo essere di qui ai prossimi vent’anni?
* Direttore generale del Censis