Nell’anno 1 d.C. la popolazione nel mondo è stata stimata in circa 250 milioni, rimanendo stazionaria a questo livello fino all’anno 1000: sale a 460 milioni nel 1500, 679 nel 1700 e 954 milioni nel 1800. È solo nel XIX secolo che la popolazione supera il miliardo e nel 1850 è stimata in circa 1,2 miliardi (Biraben): nel 1950 la popolazione raddoppia a 2,6 miliardi e nel 2050 le recenti previsioni dell’Onu ipotizzano una popolazione di 9,6 miliardi, che dovrebbero stabilizzarsi e diventare 10,9 miliardi nel 2100. Il Pil pro-capite nel mondo, e quindi il tenore di vita, sarebbe aumentato di circa 9 volte fra il 1870 e il 2010 (Maddison). L’ordine di grandezza nell’aumento della popolazione e della qualità della vita è perciò senza precedenti: mai, nei due millenni trascorsi, il mondo era cambiato così radicalmente in un tempo così breve. Popolazione, innovazioni radicali e aumenti della produttività, a beneficio del tenore di vita, sono improvvisamente balzati all’insù. Se il mondo si sta muovendo verso una popolazione stazionaria, la questione cruciale è quella di disegnare istituzioni tali per cui la società conservi la sua vitalità e la capacità di innovazioni radicali. In questa prospettiva ciò che conta non è la popolazione in sé, ma la sua struttura per generazioni. È in questa prospettiva che la generazione
core acquista un’importanza decisiva. Definiamo come generazione
core la popolazione di età compresa fra i 20 e i 39 anni: nel linguaggio contemporaneo di molti Paesi
core è il simbolo di un centro vitale, che definisce l’identità di un’impresa o di un’organizzazione, così come il cuore di una persona che irradia energia a tutto il corpo. Metaforicamente, fra i 20 e i 24 anni ogni persona si affaccia su tutte le possibili strade della vita, fra i 25 e i 29 anni cerca la sua strada, fra i 30 e i 34 anni incontra la sua strada e fra i 35 e i 39 anni cammina, finalmente, sulla strada e verso una direzione. Sul piano economico la generazione
core è cruciale perché questa è la stagione della vita in cui avvengono le più importanti decisioni che definiscono la direzione della vita futura. Questi sono gli anni in cui sono massime l’energia e la motivazione a investire per il futuro proprio, della famiglia e dei figli: se si immagina l’impatto complessivo sull’economia di una massa di giovani così orientati sul proprio futuro non è difficile immaginare quale enorme spinta economica possano generare, anche sul piano imprenditoriale. La dimensione assoluta e relativa della generazione
core è, in questa prospettiva, decisiva, perché rappresenta un potenziale di sviluppo e crescita in cerca dei canali per potersi esprimere pienamente. In Italia la dimensione assoluta e relativa della generazione
core è purtroppo in diminuzione dal 1996: in Germania la dimensione assoluta è in diminuzione dal 1993, ma in Francia - all’opposto - la generazione
core è stabile, ed è prevista in lieve aumento fino al 2050. L’individuazione del punto di svolta della generazione
core di ciascun Paese può fornire importanti indicazioni o suggestioni: nell’ex Unione Sovietica il punto di svolta è il 1986, prima della caduta del muro di Berlino; in Giappone è il 1975, con ampio anticipo sulla crisi immobiliare, per la Cina è il 2010, quando la crescita del Pil inizia a scendere, sotto le due cifre. La generazione
core diventa poi, nei vent’anni successivi, la generazione con la massima capacità di reddito potenziale e spesa, in particolare per le persone di età compresa fra i 50 e i 55 anni: è una generazione che, soprattutto nei Paesi con una quota elevata di popolazione anziana, deve equilibrare il proprio potenziale di risorse rispetto ai bisogni dei figli giovani o ancora adolescenti, e i bisogni di cure per i genitori anziani, quando non siano più autosufficienti. Per questo potremmo definirla la generazione 'bilancia'. La natalità di lungo periodo in Europa (a 28) è diminuita di un terzo, fra il 1960 e il 2013: vi sono tuttavia tre importanti eccezioni. In Francia il numero di nati oscilla intorno a 800 mila l’anno, in Svezia intorno a 100 mila, in Gran Bretagna si stabilizza intorno a 750 mila dalla metà degli anni Settanta. Tuttavia, per l’aggregato di molti grandi Paesi, come la Germania, la Spagna, l’Italia, la Polonia e l’Austria, la natalità si è quasi dimezzata. La dinamica di lungo periodo della natalità si è intrecciata con la lunga crisi europea: fra il 2008 e il 2013 il numero di nuovi nati nell’Unione Europea è diminuito del 7%. L’impatto negativo della crisi economica è stato particolarmente forte in Grecia, dove, fra il 2008 e il 2013, il Pil è diminuito del 26% e il numero di nascite è crollato del 21%, congiuntamente a un aumento della mortalità infantile. In Italia il Pil è diminuito dell’8% e i nuovi nati dell’11%; in Spagna il Pil è diminuito del 7% e le nascite del 18%, in Portogallo il Pil è diminuito dell’8% e i nuovi nati del 21%: un analogo impatto negativo si è registrato nel Centro-Nord Europa, in Danimarca, Finlandia, Olanda, e nel Centro-Est Europa, nella Repubblica Ceca, in Ungheria, Romania, Slovenia, Croazia. Il lungo periodo di crisi ha ormai provocato conseguenze permanenti sul futuro della popolazione: ad esempio in Italia l’età media delle donne al parto è aumentata a 31,5 anni, mentre il numero di donne italiane in età dai 15 ai 49 anni è in continua diminuzione. La conseguenza è che, anche qualora il numero di nuovi nati per donna dovesse gradualmente aumentare, il numero totale di nuovi nati in Italia continuerà a diminuire. In Italia il tasso di fecondità delle donne italiane è stato nel 2014 di 1,31 figli: il tasso di fecondità delle donne straniere, 1,97, rimane a tutt’oggi più elevato di quello delle donne italiane, ma è anch’esso in diminuzione ed è ormai inferiore alla soglia di 2,1, richiesta per una popolazione stazionaria. È ormai chiaro come le famiglie d’immigrati che vivono stabilmente in Italia stiano incontrando le medesime difficoltà delle famiglie italiane. Contemporaneamente i flussi migratori di natura economica verso l’Italia sono in diminuzione, e viene quindi a mancare la parziale compensazione del crollo della generazione
core italiana, che a sua volta, paradossalmente, emigra verso i Paesi che offrono opportunità di lavoro. Di conseguenza aumenta lo squilibrio generazionale. La causa della più elevata spesa per pensioni non sono i 'troppi' anziani, ma i 'pochi' giovani con un buon lavoro e un reddito stabile. Italia, Germania e Grecia sono i tre Paesi con la più elevata quota di popolazione sopra i 65 anni e, non sorprendentemente, sono anche tra i Paesi meno 'giovani' (0-19 anni): in Europa i Paesi con la più elevata quota di giovani (0-19 anni) sono Irlanda, Francia, Danimarca e Gran Bretagna. I Paesi con una quota elevata, e stabile negli anni, della generazione
core sono la Gran Bretagna, l’Irlanda, il Lussemburgo, la Polonia, la Repubblica Ceca e la Slovacchia, mentre l’Italia ha la quota più bassa, e in drastica diminuzione, insieme a Spagna, Grecia e Portogallo. Recentemente il 'Financial Times' salutava come un importante segnale di ottimismo economico il lieve aumento del numero di nati in Spagna nel 2014, così riecheggiando l’analisi di Keynes, quando nel 1937 spiegava i molteplici motivi per cui, nel mezzo della Grande Depressione, fosse necessario rimuovere gli ostacoli economici per una ripresa della natalità. L’idea centrale di Keynes è che gli investimenti sono sospinti da un clima di aspettative della domanda basato molto più sul presente che sul futuro, e quindi un aumento della natalità e della popolazione tende a promuovere un clima di ottimismo e di investimenti.
Questo articolo è tratto da un intervento più ampio pubblicato sul numero in uscita di Vita e Pensiero (n.4), bimestrale dell’Università Cattolica. © RIPRODUZIONE RISERVATA