I segnali che arrivano ora dall’Egitto del presidente islamista Mohammed Morsi non sono molto incoraggianti. Proprio nel momento in cui Washington riconosce esplicitamente il ruolo del Cairo quale cardine di un 'nuovo' Medio Oriente, proprio mentre il leader egiziano viene indicato quale artefice e garante della difficile tregua fra Israele e i palestinesi di Gaza, ecco il preoccupante colpo di mano sul fronte interno. Una concomitanza che non sembra casuale: avendo appena finito di elogiarlo e di sottolineare la necessità del suo aiuto, come può ora l’Occidente attaccarlo per le imbarazzanti decisioni che umiliano la fragile e incompiuta democrazia egiziana? Eppure, dovremmo farlo: con le decisioni di questi giorni, Morsi sembra volersi atteggiare a 'nuovo faraone', secondo l’amaro commento fatto da Mohammed el-Baradei, a capo del fronte liberale. I decreti e le leggi presidenziali non potranno più essere impugnati, la magistratura viene di fatto asservita al potere esecutivo e, soprattutto, si danno al presidente poteri ambigui e discrezionali per «preservare la rivoluzione e la sicurezza nazionale ».
Dato che anche le Forze armate sono già state normalizzate, sembra che l’Egitto si incammini nuovamente verso una china già percorsa troppe volte, di svuotamento progressivo e sostanziale delle istituzioni dello Stato a vantaggio del reggente di turno. A differenza di altre volte, vi è oggi tuttavia una reazione di parte della popolazione, che è tornata a protestare nelle piazze, attaccando sedi del partito al potere. Vedremo se ciò favorirà una mobilitazione delle forze non islamiste in vista delle elezioni parlamentari.
A chi si stupisce di questa deriva, tendenzialmente plebiscitaria, giova forse ricordare che Morsi segue l’impianto ideologico dei Fratelli Musulmani, ancorati alla visione della politica e dello Stato formulata – nella prima parte del XX secolo – dal loro fondatore Hasan al-Banna. Per quest’ultimo, era fondamentale che il popolo scegliesse la sua guida; ma una volta eletto il leader, va seguito, fintantoché questi rispetti la Legge religiosa.
Tutte le attenzioni occidentale per pesi e contrappesi costituzionali sono pressoché assenti; la società è vista come un corpo in cui le differenze e le diversità politiche sono percepite come Fitna, come una frattura. Ma probabilmente vi è anche una lettura più personale: Morsi era tutto sommato una seconda scelta per i Fratelli Musulmani; non il loro uomo di punta.
Come già successo con al-Maliki in Iraq, una volta salito al comando, sta cercando di massimizzare il potere attorno alla propria figura, anche per emergere come leader indiscusso della fratellanza. In questo scenario, vanno aumentando i timori della forte minoranza dei cristiani. Uno dei consiglieri del presidente, il copto Samir Morqos, si è dimesso per protestare contro questo vulnus che indebolisce le speranze di vera democrazia e che rende ancora più cupo il futuro della comunità. Non che Morsi sia anti-cristiano: egli si limita a seguire il pensiero di al-Banna, secondo cui i copti hanno ogni diritto a vivere in Egitto come dhimmi , protetti dal potere fino a che rispettano i patti e accettano le limitazioni previste per i nonmusulmani. Un 'radioso' futuro di cittadini di serie b, protetti dalla mutevole benevolenza del nuovo aspirante faraone.