Una sorpresa, un raggio di luce. Più che un intervento di circostanza per salutare l’avvio della nuova legislatura, Liliana Segre ha tenuto a Palazzo Madama una lezione di storia patria e di amor patrio.
Dove Patria si può scrivere, senza dubbio, con la maiuscola. Ha volato alto, ma non troppo da risultare irraggiungibile, la senatrice a vita, splendida novantaduenne con un passato all’inferno di Auschwitz e ritorno. Ha volato infatti all’altezza dei cuori dei senatori di ogni gruppo politico e di tutti gli italiani, forse ormai stanchi di un Paese eternamente diviso da una sorta di guerra civile ideologica (solo a parole, per fortuna) e sicuramente preoccupati, tanto, per le bollette sempre più care, per il Covid che tarda a scomparire, per le disuguaglianze sociali ed economiche che crescono, per una guerra (questa invece con bombe e morti, purtroppo) nel cuore d’Europa, per i troppi diritti ancora negati.
È riuscita a tenere insieme tutto questo e altro ancora, la senatrice Segre, parlando all’anima profonda di questo Paese. Non a caso ha esordito con un saluto al presidente della Repubblica Sergio Mattarella, colui che ha tenuto sempre saldo il timone delle istituzioni in questi anni di burrasca, e un pensiero a papa Francesco, guida spirituale e morale non solo per i cattolici. È stata una boccata d’aria fresca, mentre nello stesso Senato e alla Camera riprendeva il consueto tira-e-molla della politica nostrana, sentir ripercorrere da lei il romanzo – a tratti tragico, a tratti eroico – della Nazione.
Chi altri, per autorevolezza e storia personale, poteva ricordare con rigore e semplicità, nella più alta sede della nostra democrazia parlamentare, che tra pochi giorni ricorrerà il centenario della marcia su Roma, se non la donna che da bambina di appena 11 anni fu trascinata via dal suo banco di scuola, «sconsolata e smarrita », a causa delle sciagurate, disumane leggi razziali volute dal regime fascista nato proprio da quella marcia? È il passato che si fa memoria, che non deve tornare ma non deve nemmeno essere usato come un’arma nei confronti dell’avversario politico. Perché l’Italia di oggi è una democrazia, il 25 settembre «il popolo ha deciso» e «la maggioranza uscita dalle urne ha il diritto-dovere di governare», mentre «le minoranze hanno il compito altrettanto fondamentale di fare opposizione». Una “norma-lità” preziosa, che spesso tuttavia si è data per scontata o è stata nascosta da cortine di fumo partitico, da giochi di palazzo.
Questa “normalità” – ha ricordato Segre – per la quale c’è chi è stato ucciso, come Giacomo Matteotti, ci è garantita dalla Costituzione della Repubblica che «come dice Piero Calamandrei è non un pezzo di carta, ma il testamento di 100.000 morti caduti nella lunga lotta per la libertà». Applausi convinti e numerosi sono risuonati nell’Aula per questo e per molti altri passaggi del discorso. Una lezione, si diceva. Ma anche un raro esempio di quel patriottismo repubblicano che la nostra democrazia ha respirato troppo poco. Un patriottismo che considera naturale e mai “divisivo” festeggiare, tutti, la Liberazione il 25 Aprile, il Lavoro il Primo Maggio, la Repubblica il 2 Giugno. Occorreva dirlo e forse mai è stato detto così chiaramente, serenamente e in un’occasione tanto solenne.
Subito dopo la dialettica parlamentare, non senza scossoni all’interno della maggioranza e delle opposizioni, ha emesso il suo primo verdetto: Ignazio La Russa è il nuovo presidente del Senato. Tra quegli applausi convinti e numerosi a Liliana Segre c’era anche il suo, quello di un uomo che ha sempre militato a destra – nel Msi, poi in An, brevemente nel Pdl e infine in Fdi – e che oggi si tr ova a ricoprire la seconda carica dello Stato. Agli applausi ha poi aggiunto il suo personale omaggio a Segre, un mazzo di rose bianche. Ma soprattutto, La Russa ha dato probabilmente la migliore definizione della collega: « Non Presidente provvisoria, ma Presidente morale» del Senato. Nel suo discorso non ha lasciato cadere il testimone che gli era stato appena passato. Ha omaggiato tra gli altri Sandro Pertini, il Presidente partigiano, ha ricordato i giovani di ogni colore morti a causa della violenza politica sul finire degli anni 70. E non ha evitato il riferimento alle feste nazionali da celebrare «da tutti». Anzi – ha proseguito, rispolverando un “classico” della sua parte politica – si potrebbe festeggiare anche «la nascita del Regno d’Italia», il 17 marzo del 1861. Non sarebbe uno scandalo: nel 2011, in occasione dei 150 anni, fu festa nazionale. Certo, è una data che parla di unità. Ma, più delle feste, a questo Paese è mancata troppo spesso proprio l’unità. L’occasione intravista ieri al Senato, perciò, non va sprecata.