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L'esibizione di Giorgia a Sanremo - Pool Sanremo 01 / ipa-agency.net
Si dice che il Festival di Sanremo sia uno specchio della società (e del momento storico) che lo esprime. A questo proposito un pensiero ardito mi è balenato in testa mentre volando da Sud a Nord ascoltavo in cuffia la playlist dell’ultima kermesse canora nazionalpopolare. Un pensiero che sta necessariamente occupando il dibattito dei nostri tempi impegnando filosofi, antropologici, moralisti, teologi, economisti, sociologi, scienziati di ogni disciplina. Un pensiero che ha a che fare con la complessa dialettica tra “tra artificiale” e “naturale”, tra “digitale” e “reale”, tra “potenza della tecnologia” e “dignità della persona umana”. Un pensiero che, ai miei occhi professionalmente deformati, ha fatto del Festival della Città dei Fiori un’immagine perfetta e paradigmatica del rischioso salto ontologico che sta attraversando l’umanità in queste epoca di grandi transizioni
L’intuizione è sgorgata ascoltando Giorgia. C’è qualcosa di profondamente rivelatore nella sua recente (ennesima verrebbe da dire) straordinaria performance vocale che ha messo in luce un talento capace di incantare il pubblico con un’interpretazione sontuosa e capace di restituire con naturalezza quel pathos che la musica - nella sua essenza più pura - dovrebbe sempre esprimere. In un’epoca in cui le esibizioni musicali sono sempre più mediate dalla tecnologia, dove l’autotune e gli algoritmi di post-produzione dominano la scena, Giorgia ha ricordato a tutti che la vera arte non si misura in perfezione sintetica, ma in autenticità espressiva. La sua “voce naturale” che sgorga come un grido (o un soffio) della sua anima, muovendosi con agilità tra registri e colori diversi, è apparsa quasi un antidoto al crescente fenomeno della “voce artificiale”, che nei talent show e nei palcoscenici contemporanei ha spesso ridotto il canto a una prestazione ingegnerizzata, depurata da ogni errore ma anche da ogni verità interiore. La voce di Giorgia ha dimostrato che non c’è algoritmo che possa riprodurre la singolarità di un’emozione autentica. Può esistere un’IA capace di generare una melodia perfetta, di imitare una voce, di correggere ogni imperfezione, ma ciò che rende un’interpretazione unica è l’intreccio irripetibile di vissuto, esperienza e sentimento che solo un’intelligenza incarnata può esprimere. GiorgIA potrebbe dunque dire tra il serio ed il faceto.
Qui si innesta la riflessione più ampia cui accennavo in premessa: quale rapporto intercorre tra l’intelligenza naturale e l’intelligenza artificiale (ovvero tra facoltà naturali e facoltà artificiali)? E, più in generale, qual è il senso profondo dell’innovazione e del suo rapporto con la centralità dell’umano, in un’epoca in cui la tecnologia sembra sempre più assumere il ruolo di protagonista?
Il tema è antico. Già Platone, nel Fedro, si interrogava sulla differenza tra la parola scritta e quella viva, sostenendo che la scrittura fosse solo un’ombra sbiadita del pensiero e dello spirito che lo sostiene, essendo essa stessa una “protesi tecnologica” dell’umano più vero ed essenziale. Oggi, questa dialettica di ripropone in termini nuovi: gli artefatti digitali, per quanto sofisticati, potranno mai sostituire l’atto creativo autentico di un essere umano che si nutre della “scintilla di eterno” di cui ogni persona è ontologicamente e storicamente portatrice? Perché la questione nuova che si pone è proprio questa: è la prima volta nella storia dell’umanità che i ritrovati tecnologici sono pensati per “sostituire” l’umano nelle sue facoltà peculiari e non per supportarlo nelle sue funzioni esteriori. Ancora una volta la musica ci viene in soccorso: gli strumenti musicali o tecnici (microfoni, amplificazioni, etc) sono anch’essi “tecnologia” che completa, valorizza e supporta l’umano. Che promanano dall’umano e che senza l’umano non avrebbero vita propria. I nuovi ritrovati tecnologici derivanti dallo sviluppo digitale invece, sono autoconsistenti. E’ possibile un nuovo equilibrio fondato su un uso giusto e buono della tecnologia?
Nell’abbozzare una risposta vale l’antica e consolidata regola: la tecnologia deve essere al servizio dell’umano per completarlo e supportarlo, e non dunque l’umano asservito (o sostituito e annullato) dalla tecnologia. Come ha sottolineato Heidegger in “La questione della tecnica”, il rischio della modernità non è la tecnologia in sé, ma la sua trasformazione in una gabbia epistemologica che riduce l’essere umano a un mero ingranaggio del sistema tecnico. In altre parole, quando la tecnologia smette di essere uno strumento e diventa il fine ultimo, l’umanità rischia di perdere la propria centralità.
Nella sua analisi della società moderna, Arnold Gehlen parlava, appunto, dell’uomo come di un “essere carente”, ovvero di una creatura che ha bisogno di cultura, strumenti e istituzioni per sopravvivere. Tuttavia, la tecnologia, anziché essere solo un supporto, sta sempre più diventando un sostituto delle facoltà umane. Questa è la logica della “società artificiale” descritta da Heinrich Popitz: un mondo in cui il progresso tecnologico non è più un mezzo per elevare l’uomo, ma un processo che tende a svuotarlo della sua essenza, fino a rubargli la sua altissima dignità di creatura tra le creature nel creato. Il problema, però, non è solo tecnico, ma culturale: stiamo progressivamente accettando un mondo in cui l’ontologia è sopraffatta dalla tecnologia, in cui il naturale è sacrificato sull’altare dell’artificiale, in cui lo spirito e soffocato dalla materia ed il trascendente dall’immanente. In questa prospettiva la mediocrità viene normalizzata attraverso la tecnologia, anziché stimolare l’eccellenza e la ricerca del bello. Nella storia, invece, la tecnologia buona non è mai stata un alibi per abbassare il livello dell’umano, ma un ponte per elevarlo. San Tommaso d’Aquino, nella sua riflessione sull’arte (Summa Theologiae, I-II, q. 57), distingue tra l’ars come abilità tecnica e l’ars come espressione della verità. Giorgia, con la sua voce, o i raffinatissimi archi di Valeriano Chiaravalle, ci hanno offerto una lezione silenziosa ma potente: l’arte vera non è mai un semplice prodotto tecnologico, ma un atto di presenza, di incarnazione, di verità. In un mondo sempre più dominato dalla società artificiale, l’arte può essere un faro per ridefinire il rapporto tra umano e tecnologia testimoniando che esiste ancora uno spazio per l’autenticità, per la bellezza non ingegnerizzata, per la presenza umana che non può essere replicata da alcun algoritmo.
Nella prospettiva dell’innovazione armonica questa lezione è essenziale.
Se vogliamo che il futuro sia davvero umano, dobbiamo tornare a riconoscere il valore dell’errore, dell’imperfezione, della vulnerabilità—perché è in questi elementi che si nasconde la vera bellezza. E forse, in fondo, è proprio questo il messaggio che la voce di Giorgia ci ha lasciato: in un’epoca di suoni perfetti e senz’anima, la vera rivoluzione è tornare a essere pienamente umani.
La cura per me, appunto. Anzi per noi, per il mondo, per il futuro.
Non sono solo canzonette, quindi. Mai.