La Francia del malessere dice Macron, ma non solo
martedì 21 giugno 2022

Un voto segnato da astensione e scelte radicali degli elettori Il dato apparentemente più saliente e al tempo stesso incontestabile del voto francese è l’ascesa vertiginosa dei consensi per la destra estrema di Marine Le Pen, di cui si era avuto uno squillante preavviso il 24 aprile scorso con quel 42% alle elezioni presidenziali. Ora la figlia del truce Jean-Marie ed erede del suo Front National può contare su un’ottantina di deputati, dieci volte di più dell’esiguo manipolo acciuffato cinque anni or sono. Segno di un radicamento che ha attecchito profondamente nel Paese. Un Paese che ha altresì premiato 'Nupes', il cartello elettorale allestito da Jean-Luc Mélenchon denominato Nouvelle union populaire écologiste et sociale, nella cui sigla s’intravedono spezzoni di istanze comuniste, socialiste, verdi, un’azzeccata estensione di quella France Insoumise in cui si mescolavano cinque anni fa il socialismo democratico con l’euroscetticismo, il populismo di sinistra con l’ecologismo e che oggi ha fatto guadagnare a Mélenchon almeno centosettanta seggi all’Assemblea Nazionale, secondo partito dopo Ensemble! di Macron, che ha perduto la maggioranza assoluta di cui aveva goduto all’indomani del suo trionfo del 2017.

Il successo di questi due opposti schieramenti fa presagire una difficile navigazione per l’inquilino dell’Eliseo, con il rischio di trovarsi ostaggio permanente degli avversari. I voti di Le Pen a Macron non serviranno mai. L’estremismo eu- roscettico e xenofobo abilmente dissimulato dietro a una conciliante immagine di grand mère della Francia trapela da ogni piega del Rassemblement National a dispetto dell’accurata cosmesi praticata da Marine, da anni peraltro copiosamente foraggiata dalla Russia, che non ha negato simpatie e sostegno anche allo stesso Mélenchon. Neppure il mariage blanc al momento pare percorribile: quella coabitazione cioè fra un presidente di destra e un premier di sinistra, come accadde a Chirac con Lionel Jospin, o fra un presidente di sinistra e un primo ministro di destra, come avvenne negli anni Ottanta fra Mitterrand e Chirac.

Macron dovrà pertanto rivolgersi – ed è molto probabile che lo farà – ai gollisti, o anche ai settori moderati di socialisti e verdi per raggiungere quella maggioranza parlamentare che non ha più, replicando suo malgrado un modello già vissuto in Francia ai tempi della Quarta Repubblica, quando l’ingovernabilità era un fatto quotidiano e a ogni importante votazione il governo cercava di comporre una maggioranza diversa.

Non a caso oggi in Francia si parla di «scenario italiano », visione che atterrisce il Paese del semipresidenzialismo inventato da De Gaulle all’alba del 1958. Ma nel suo editoriale di ieri 'Le Figaro', quotidiano certo non ostile al presidente, prefigura per Macron «lo spettro di un quinquennato nato morto». Cosa ci insegna dunque la vittoria di Pirro di Emmanuel Macron? Varie cose. Innanzitutto che c’è un partito di autentica maggioranza che ha pesato sulla consultazione elettorale, ed è quello dell’astensione, che ha sfiorato il 54%. Una Francia sorda e delusa cui hanno risposto con successo due forze politiche diversissime fra loro.

In secondo luogo, il fatto che populismi e sovranismi – se pure con le necessarissime distinzioni fra l’estrema destra di Marine Le Pen e il suggestivo e variopinto cartello di Mélenchon – non sono scomparsi e non sono stati debellati dall’emergenza Covid e dalla tragedia dell’invasione dell’Ucraina, due circostanze che hanno consentito all’Europa di avvicinarsi maggiormente a se stessa e sentirsi per una volta più prossima al disegno unificatore che i padri fondatori avevano concepito all’indomani della fine del Secondo conflitto mondiale. Le spinte centrifughe, anarcoidi e non di rado xenofobe (troppo presto forse ci si è dimenticati dei gilets jaunes, una jacqueriemessa rapidamente in soffitta dalla cronaca ma di fatto riemersa sia nell’astensionismo sia nel voto anti-sistema di tre giorni or sono) sono ancora abbondantemente presenti nella società francese, così come in altre democrazie europee.

Ma è soprattutto su Macron, su quel quantum di spregiudicata vanità derivatagli dal passato trionfo elettorale non esente da lampi di mediocrità nella visione politica che occorre riflettere: il suo 'cesarismo' verticale che pretendeva di interpretare la democrazia come una delega in bianco in mano a un solo uomo si è scontrata con una realtà che ha finito con il frantumare tante certezze dei francesi e che a modo suo ha punito quel bonapartismo che è tentazione perenne di chi mette piede all’Eliseo, reclamando una nazione non più en marche, ma alla ricerca di un nuovo più equo modello nella gestione (e soprattutto nella condivisione orizzontale) del potere. Difficile pensare che ciò sia un male.

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