L’avvio dell’Anno della Fede sta accendendo qua e là nelle comunità cristiane un’interessante attenzione per la questione che riguarda il senso del credere oggi. Ed è come se, incoraggiati dalla sincerità con cui il Papa per primo riconosce la crisi che attraversa credenti e comunità, si avesse meno timore ad ammettere stanchezze, ripiegamenti e pigrizie che rendono meno trasparente la testimonianza dei cristiani e meno efficace la loro proposta, soprattutto alle nuove generazioni. Almeno due sono i problemi da affrontare: il primo è quello che riguarda la profondità e la tenuta dell’esperienza di vita cristiana di coloro che si ritengono credenti; alla prova del tempo e della complessità del mondo di oggi, ci si rende conto che molti vivono di una fede data troppo per scontata, chiusa sulle cose da fare, a rischio di inaridimento e di perdita di slancio. È quello che lo Strumento di lavoro per il recente Sinodo riconosce: «La fede è diventata un presupposto anche per parecchi cristiani, che hanno continuato a preoccuparsi delle giuste conseguenze sociali, culturali e politiche della predicazione del Vangelo, ma non si sono sufficientemente adoperati per tenere viva la fede loro e delle loro comunità» (IL, n. 7).
Ma vi è un secondo problema, ancora più spinoso: è quello che riguarda la capacità di leggere ciò che sta avvenendo nella vita delle persone comuni e la difficoltà a interpretare il loro progressivo estraniarsi dalla vita ecclesiale e, alla lunga, anche dalla fede. Si registrano dei fenomeni, ad esempio quello della diminuzione della pratica religiosa, o dell’allontanamento dei giovani, ma senza che si riesca a leggere il fatto al di là della freddezza dei numeri. Perché tanti, giovani e adulti, si allontanano oggi dalla fede? La loro, oggi, non è la scelta di chi ha deciso di mettersi contro Dio, ma semplicemente il frutto del sentirsi estranei alla mentalità di tanti cristiani; di avvertire che vi è un modo di presentare la fede e la vita cristiana che non li tocca, che non li interpreta nelle loro domande. Che cosa sta succedendo nella vita delle persone comuni? Nella coscienza dei giovani? Come sta cambiando la loro ricerca di valori assoluti, la loro tensione verso Dio? È proprio vero che i giovani hanno imparato a fare a meno di Dio? O piuttosto rivelano in forme che appaiono indecifrabili una sete di Dio cui non si sa rispondere? Un bisogno di Dio che si intreccia con la loro domanda di vita e di pienezza? L’Anno della Fede è un tempo propizio per porsi questi interrogativi. Di fronte a un’analoga consapevolezza di non riuscire più a far incontrare Vangelo e vita, la Chiesa di 50 anni fa decise il Concilio. Nel discorso di apertura, Giovanni XXIII disse che lo scopo del Concilio non era quello di discutere la dottrina fondamentale della Chiesa, ma –affermò – «è necessario che questa dottrina certa e immutabile [...] sia approfondita e presentata in modo che essa risponda alle esigenze del nostro tempo». L’anniversario dell’inaugurazione delle assise conciliari ce ne ha riproposto la memoria. Celebrare l’Anno della Fede può significare misurarsi apertamente con la prospettiva già indicata da Giovanni XXIII. Sarà difficile compiere questa revisione senza un percorso spirituale che ponga la questione della fede al centro della vita della comunità cristiane, per recuperare una prospettiva più nitida, purificata da tanti elementi accessori che siamo tentati di moltiplicare oggi, a sostituire o a mascherare la fatica dell’essenziale.