Ma quale svuota-carcere. Il decreto-legge di luglio convertito in fretta nei giorni precedenti al Ferragosto non ha tirato fuori nessuno dalle celle arroventate. Qualcuno è uscito da sé senza attendere il fine-pena, passando col suicidio dalla cella all’obitorio. L’ultimo della serie il numero 67 (chi si ricorda il nome? Cosa conta il nome dei disperati?) il giorno stesso della approvazione della legge.
Sensi di colpa? In quelli che governano le pene prevalgono i sensi di vacanza estiva, poi si vedrà. Promesso, sarà il miracolo. Intanto le rivoluzionarie novità sono mille poliziotti in più. La sicurezza, si capisce, a scanso di rivolte. Per i reclusi il beneficio immediato di due telefonate in più al mese (da quattro a sei). Lodevole l’intento antisuicida, perché come è noto una telefonata allunga la vita.
Vi disturba l’ironia? Allora parliamo di giustizia con la serietà di chi sta in faccia ai morti di un sistema carcerario incivile. E per la prima volta proviamo a mettere in gioco i giudici. I giudici hanno le chiavi delle galere. Non entra nessuno in quel tritacarne se non ce lo manda un giudice. I giudici delle condanne usano nel sentenziare una formula liturgica che comincia così: “Visti gli articoli...”. Ed è vero, gli articoli li hanno visti, magari li sanno a memoria, e se c’è scritto reclusione è reclusione. Ma in che cosa consista di fatto la reclusione che viene praticata nelle carceri italiane non è cosa vista, o su cui i giudici mettano gli occhi.
Non tocca a loro, si dirà; tocca all’amministrazione, tocca al governo, tocca al Parlamento. Non è così, non del tutto. Certo che tocca all’amministrazione, ma i giudici non possono chiamarsi fuori. E per spiegarlo basta l’alfabeto del diritto penale e costituzionale.
Tutti siamo portati a pensare che la reclusione sia qualcosa di ordinario, di consueto, di normale, nel catalogo delle pene. Nel mondo, la fantasia dei castighi ha escogitato una varietà di pene impressionante: la morte, le frustate, il taglio della mano, la gogna, il gulag, il carcere; e in progresso le pene alternative, le prestazioni obbligate socialmente utili. Nell’art. 27 della Costituzione italiana non si nomina nessun tipo di pena, ma si dispone che “le pene” (tutte) devono rispondere a due requisiti: uno, “non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità” e due, “devono tendere alla rieducazione del condannato”. Le pene diverse da così sono fuori legge, sono fuori Costituzione.
Allora, se una norma punisse il borseggio in metrò con il taglio della mano, voi pensate che un giudice, visti gli articoli lo ordinerebbe; o non piuttosto rifiuterebbe la barbarie denunciando la norma alla Corte costituzionale? E allora la strada per far cessare la barbarie del carcere-tortura c’è, se qualche giudice comincia a dire che la pena di “questa” reclusione concreta è disumana e dunque le norme che la impongono vanno mandate alla Consulta una dietro l’altra, finché il sistema punitivo non si converte dal delitto al diritto.
Provocazione? La Corte Europea dei Diritti Umani ha punito decine di volte l’Italia per il suo sistema carcerario. Nel 2013 ci ha inflitto la vergogna (sentenza Torreggiani) di trasgressori dell’art. 3 della Convenzione (tortura e trattamenti inumani e degradanti); e ci aveva dato un anno di tempo per far cessare il sovraffollamento che stipava corpi umani in spazi da bestie. Oggi è l’identica tragedia: 61.547 detenuti su una capienza regolamentare di 51.241. Come si fa a non capire che il 61mila nel 51mila sta zero volte virgola qualcosa, cioè “non ci sta”. E allora la condanna a stare dove non ci si sta, e a starci chiuso, è un’ingiustizia indegna, che i giudici devono far cessare.
Se la sentono? Ce la faranno? Nel gennaio di quest’anno la CEDU ha condannato per l’ennesima volta l’Italia. Stavolta perché un malato di mente, destinato proprio da un giudice di sorveglianza al previsto ricovero in una Residenza per l’esecuzione di misura di sicurezza è stato tenuto in carcere per quasi due anni aspettando che gli si trovasse un posto. Crudeltà: a ogni volgere d’estate, anche quando non vi sono tetti scoperchiati e pagliericci in fiamme come in passato, è un soprassalto di coscienza sul prezzo e sul frutto del dolore. Non c’è parentela fra giustizia e crudeltà; non c’è neppure guadagno.
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