A tavola per la meritata sosta pranzo, con la televisione accesa per le ultime notizie. Le guerre, che continuano a mietere vittime; le analisi delle ultime elezioni; maschi che ancora uccidono le donne che dicevano di amare. Poi: «Camorra. Napoli, ospedale San Giovanni Bosco: undici arresti». Un sorriso amaro mi si dipinge in volto: «La scoperta dell'acqua calda... se ne sono accorti adesso?».
E il pensiero corre a quando, pochi anni or sono, Francuccio, mio fratello, in quell'ospedale andava consumando i suoi ultimi giorni. Era chiaro a tutti che qualcosa non andava, a cominciare dal parcheggio che bisognava pagare due volte. E il via vai dai reparti di parenti e amici chiassosi a tutte le ore. Operato di un orribile cancro alla gola, Francuccio aveva difese immunitarie fragilissime. Occorreva difenderlo da ogni probabile infezione. Un giorno - con mio grande stupore - vidi piombare nella stanza di degenza, un uomo con un borsone in una mano e diversi paia di calzini nell'altra. Un venditore abusivo. Francuccio era grave, con educazione declinai l'invito ad acquistare quella merce zeppa di germi di ogni tipo, mentre mi chiedevo come avesse fatto ad arrivare fino a noi. Il mio rifiuto lo fece andare su tutte le furie, e, con una mossa improvvisa, lanciò quei calzini sudici sul lettino, a pochi centimetri dalla ferita ancora aperta. Sono quelli, momenti terribili, nei quali le priorità si confondono. Tuo fratello ti implora di lasciar correre, di non fare storie; il tuo innato senso civico ti porterebbe a chiamare i carabinieri.
Denunciare? Certo, con scarsissimi risultati. La camorra, questa maledetta serpe a sette teste che non vuol morire, continua ad avvelenare cose, istituzioni, uomini. Che da sempre allunghi le grinfie nel mondo dei rifiuti, dell'imprenditoria e del commercio, è cosa risaputa, che s'intrufoli nell’edilizia, nella ristorazione, nei grandi centri commerciali, anche. È diventata, questa realtà, per chi, come me, continua a vivere e a operare in questi territori, una sorta di "anomala normalità". Non è raro sentire dalla bocca anche di persone dalle quali non te lo aspetti, "consigli" come questi: «Che cosa pensi di fare? Lo vuoi salvare tu il mondo? Lascia perdere, si è sempre fatto così. Il pesce puzza dalla testa, eccetera».
Espressioni insopportabili che danno, però, il polso della situazione. Che la camorra fosse penetrata nel mondo della sanità, là dove l'uomo è più fragile, più impaurito, più depresso, è un pensiero che si tenta di allontanare. Fa troppo male. Non lo si vuole ammettere. E poi, in un ospedale operano decine di professionisti, amministratori, tanto personale, bazzicano tanti politici, possibile che lascino campo libero a questi delinquenti senza scrupoli? Fanno paura, è vero; non guardano in faccia a nessuno, è vero. Ricorrono alle minacce, alla violenza, alle armi, è sempre vero. Però. C'è un limite a tutto. La notizia di oggi ci scortica, ci umilia. Non è questione solo di denaro, quello, in un modo o nell'altro, lo si trova sempre. Un ospedale - santuario della vita fragile, malata, nascente, morente - in ostaggio alla camorra è qualcosa di una gravità inaudita. «Sono stato minacciato» è questa, in genere, la giustifica degli amministratori, dei professionisti, dei colletti bianchi collusi o corrotti.
È vero, la minaccia e la violenza sono all'ordine del giorno. Per questo motivo bisogna agire insieme; mai come in questo campo la solitudine degli onesti equivale a una morte annunciata. Guai a minimizzare. Guai a ridicolizzare chi, in qualsiasi modo, sta tentando di opporre un argine a un sistema collaudato che avvelena il tessuto sano della società. Credo che i politici campani, gli amministratori dell'AsI di competenza e del "San Giovanni Bosco", il personale tutto che, in qualche modo, sapeva o intuiva che qualcosa non andava, sono chiamati a fare un serio esame di coscienza.
Com'è stato possibile? Com'è potuto accadere? A chi conveniva quel sistema? Chi, oltre alla camorra, ne ha tratto profitti? Chi ne ha pagato le conseguenze? Da parte mia, ricordo solo con grande amarezza che mio fratello, oltre al dolore fisico e psicologico per il cancro e l'operazione subita; allo strazio per non riuscire più a parlare e a mangiare, dovette sopportare quell'"anomala normalità". Una sola cosa, allora, con gli occhi, ci chiedeva: «Portatemi via da questo luogo». Qualche mese dopo, Francuccio, si spegneva, tra le mie braccia, a casa nostra.