L'abbraccio di un padre ucraino col figlio, liberato dai russi assieme ad altri 102 soldati - Ansa
Lei ha gli occhi chiusi in una gioia infinita, come di chi ritrovi un paradiso perduto. Le grosse braccia da donna abituata alla fatica lo stringono forte: non vorrebbe più lasciarlo andare. Il padre, i capelli grigi, con braccia ancora più grandi li circonda entrambi. Il figlio ha la bandiera azzurra con l’aquila sulle spalle larghe, i capelli rasati a zero. È un prigioniero ucraino ritornato, scambiato insieme ad altri cento con prigionieri russi. Nella foto sul web ieri mattina la gioia si vede bene, come in trasparenza: ti credevo perduto, e sei tornato. Un figlio perso e ritrovato fa impazzire il cuore, quasi nascesse di nuovo. Anche dall’altra parte di quel sanguinoso confine altre poche, fortunate madri hanno riabbracciato i loro figli, e sono certa che le loro facce, gli occhi, sono gli stessi. Uguali sono le madri: ugualmente desolate aspettano un figlio dal fronte, ad ogni latitudine, in ogni tempo.
Spesso mi dico che se smettessi di guardare tg e media, in questi mesi, vivrei meglio. Ma mi sentirei vile. Non credo di avere diritto, nel mio angolo di mondo in pace, di esimermi dal vedere. Ma ieri mattina, per una volta, quella foto mi ha contagiato gioia. Lo capisco bene quell’abbraccio: è una lingua originaria, che non c’è bisogno di studiare. E lo riconosco, anche, quell’abbraccio: è lo stesso di mia nonna, in un giorno di maggio del 1943, al mio giovane padre, rimpatriato dopo mesi di silenzio dal fronte russo, dal Don.
Lui arrivò all’alba. Bussò alla porta, lei si affacciò e corse giù, impazzita, incredula. Che sconfinato abbraccio a quel figlio tornato: ogni mattina, ogni notte pregava per lui. E Dio aveva avuto pietà del suo dolore. Ora capisco davvero, ora che i miei figli hanno l’età del mio giovane padre, in un’alba del ‘43, a Parma. La bandiera azzurra con l’aquila in quella foto sta sulle spalle larghe di un uomo fatto, un uomo forte. Ma non conta: è il figlio perso, e ritrovato. È l’abbraccio che sognano le madri disperate degli ostaggi israeliani sepolti da un anno nei cunicoli di Gaza; è lo stesso che. non vivranno decine di migliaia di madri palestinesi, chine su piccoli fagotti bianchi immobili. È l’abbraccio, immagino, di una donna straziata cui Gesù Cristo disse: la fanciulla non è morta, ma dorme. “Talità, kum”. E la fanciulla aprì gli occhi.
È l’abbraccio, mi dico con dolore, che mia madre non poté dare a mia sorella quattordicenne: lei, pallida, bella, la treccia nera sulla spalla, non si svegliò. Ed è l’abbraccio che io spero di non vivere mai con i miei figli, e i loro figli. Che non vadano mai al fronte, che noi non si stia ad aspettarli, muti di angoscia. Guardo questi bambini classe 2020, 2023. Non sono più totalmente convinta, come un paio di anni fa, che la pace di questo Occidente sia per sempre. Non ne sono più così certa. Per questo mi commuove tanto quell’abbraccio fra sconosciuti. Ora comincio a capire ciò che prima era impensabile, impossibile. E, in questa coscienza mi pare d’essere molto invecchiata, in appena due anni.
Mi chiedo: se il mondo fosse retto non da “donne”- non credo a una sostanziale naturale differenza di bontà fra donne e uomini - ma da madri, che riconoscano nei ragazzi al fronte i loro stessi figli. Ecco, mi domando se qualcosa allora non cambierebbe.
Ma, che idea assurda. Le madri da sempre stanno dall’altra parte del Potere. Restano ad aspettare. A sussultare, il cuore in gola, ad ogni squillo del telefono, ad ogni tocco alla porta.