«Sepolcro io gli darò; bella, se l’opera avrò compiuta, mi parrà la morte. E cara giacerò presso a lui caro». Così nei versi tragici di Sofocle proclama Antigone, figlia di Edipo, disposta a violare le ferree leggi di Tebe pur di assicurare la giusta sepoltura al fratello Polinice, che il re Creonte vorrebbe – in quanto traditore – insepolto ed esposto all’oltraggio della natura. In questo scontro memorabile avvenuto duemilacinquecento anni fa tra le leggi dello Stato e quelle della morale (entrambe provviste di profonde e giustificate ragioni e per questo difficili da comporre) sta il nocciolo vivo della nostra civiltà, quella scintilla che, a prescindere da ogni credo, illumina e discrimina l’
humanitas (per il mondo greco la
philanthropia), distinguendola dalla barbarie.Offendere il corpo morto del nemico, lasciarlo incustodito e violato è un atto di barbarie. Barbaro è Achille, che trascina per nove giorni con il suo carro il cadavere di Ettore ucciso in duello prima di restituirlo a suo padre Priamo, la pena di morte stessa è una barbarie, perfino scrivere una poesia dopo quello che è accaduto ad Auschwitz – si arrischiava a dire il filosofo Adorno – è un atto di barbarie.Nella mesta cronaca dell’ordinaria barbarie contemporanea s’inquadra anche il breve ma raggelante filmato “amatoriale” apparso qualche giorno fa su YouTube, nel quale quattro marines urinano sui cadaveri di tre afghani, taleban forse, in ogni caso esseri umani senza più vita. «Deplorevole», secondo il segretario alla Difesa americano Leon Panetta. Insopportabile, secondo noi di Avvenire, tanto che per scelta non pubblichiamo alcuna immagine di quel gesto.Una nuova e parimenti squallida Abu Ghraib in miniatura, che certamente nasconde molti interrogativi e – a nostro giudizio – qualche studiata interferenza attorno al negoziato di pace che i taleban dichiarano di voler avviare aprendo una loro sede paradiplomatica in Qatar. Certamente non possono i taleban farsi paladini di una specchiata
humanitas: non loro – musulmani iconoclasti – che abbatterono le statue dei Buddah di Bamiyan bollandole come idoli, non loro che sgozzarono e decapitarono – per citare un caso a noi vicino – l’autista del giornalista Mastrogiacomo, rapito mentre si recava a intervistare il mullah Dadullah. Atti di pura barbarie, non certo di guerra.Ma la barbarie altrui non cancella quella dei marines. Né le spiegazioni di ordine psichiatrico bastano a emendarne il comportamento: quel
Lucifer Effect, teorizzato all’Università di Stanford fin dagli anni Settanta secondo cui solo la de–umanizzazione del nemico, riducendolo a oggetto e privandolo delle sue prerogative umane, consente a un soldato di compiere fino in fondo il suo dovere, non assolve né giustifica l’orrore dilagato su YouTube.Un orrore a orologeria, dicono in molti, considerata l’avversione del presidente afghano Karzai nei confronti di un’intesa troppo rapida fra Washington e gli studenti coranici taleban. Gioverà ricordare come il predecessore di Karzai, Burhanuddin Rabbani, sia rimasto ucciso in un attentato il 20 settembre scorso mentre gestiva in prima persona i delicati preliminari per l’avvio di un negoziato di pace con i taleban. Rabbani era il principale oppositore del presidente Karzai.Di tutto ciò resta acre e amaro un rammarico. Certo, il video con la profanazione dei tre cadaveri da parte marines non concorrerà a lasciare un ricordo lusinghiero della permanenza americana in Afghanistan. A dispetto – e questo è forse il peggiore dei danni che la barbarie reca con sé – della moltitudine di gesti e di opere silenziose che le migliaia di soldati dell’Isaf (non ultimi gli italiani) hanno compiuto in questi anni a beneficio del popolo afghano. Lunga sembra ancora la strada da percorrere perché la
pietas di Antigone sia riconosciuta come un valore universale. Di questo, soprattutto, dobbiamo dolerci.