Da ieri sera, dopo la sentenza della Corte costituzionale sull’Italicum, l’Italia è in una condizione senza precedenti. Ha due diverse leggi elettorali per l’elezione dei due rami del Parlamento repubblicano, l’organo-cardine della nostra democrazia, e nessuna di esse è frutto della volontà del legislatore. Entrambe le leggi sono infatti il risultato dell’azione di scrittura-riscrittura operata dalla Corte costituzionale. Se avessimo dovuto immaginare un modo per rendere più evidente la triste realtà della nostra "politica" dopo anni di proclami ed esibizioni decisioniste e para-decisioniste, forse non saremmo arrivati a tanto. Ma proprio a questo siamo: alla certificata incapacità del Parlamento di stabilire regole per la sua stessa elezione che reggano, in questa fase storica, alla matita rossa e blu del piccolo sinedrio di giudici che siedono nel "tribunale delle leggi".
Da qui, se ne saranno capaci, coloro che ambiscono a rappresentarci e governarci dovranno ripartire, dimostrando di avere più testa che ambizione, più coraggio e spirito di servizio che ansia di tentare un qualche precipitoso "incasso" in una concitata e demagogica corsa alle urne con due sistemi elettorali molto differenti sebbene entrambi a base proporzionale.
Per il Senato, vige il Consultellum 1 (figlio legittimo del delegittimato Porcellum berlusconiano) che incentiva le coalizioni, restituisce agli elettori l’arma della preferenza unica e non offre premi di maggioranza.Per la Camera, vige invece il Consultellum 2 (frutto del dimezzamento dell’Italicum renziano) che incentiva la gara tra partiti e svalorizza le alleanze, mescola scelta degli elettori, direttive dall’alto e assoluta casualità nell’elezione dei deputati e premia in seggi il primo partito al di sopra della soglia del 40%.
Si tratta di due leggi, allo stato delle cose, «strabiche» e inadatte a garantire piena rappresentanza e ragionevole governabilità. Per questo andrebbero coordinate e armonizzate, ed è ben possibile farlo. Se, però, come nelle settimane trascorse inutilmente tra il referendum costituzionale del 4 dicembre e la sentenza di ieri della Consulta, mancasse ancora la volontà di dare una risposta politica efficace – verrebbe da dire riconciliatrice – alle attese dei cittadini-elettori, se insomma il serio gioco parlamentare si risolvesse di nuovo in una irritante, faziosa e sterile "melina", allora sarebbe meglio tagliare corto e chiudere l’esperienza di questa difficile e contraddittoria XVII legislatura.
Facile capire che cosa serve di più al bene comune. E noi siamo tra quanti, spes contra spem, continuano ad augurare all’Italia e agli italiani che Parlamento e leader di partito e di movimento sappiano concentrarsi, per il tempo necessario, sull’essenziale e riescano a evitare di certificare un altro glorioso fallimento e un raggelante stato di minorità di una politica che assedia e svuota se stessa persino più dei sentimenti e risentimenti antipolitici che – le ragioni sono sotto gli occhi di tutti – anche nel nostro Paese stanno prendendo piede.
Tra le non poche lezioni che l’ultimo quarto di secolo italiano ha impartito, ce n’è una che potrebbe essere utile a chi deciderà l’esito del possibile e necessario lavoro comune sulle comuni regole del voto. A far calcoli di parte sulla "resa" di un sistema elettorale si prendono solenni cantonate. Tant’è che, alla prima applicazione dei sistemi per l’elezione del Parlamento che abbiamo visto immaginare e realizzare in questi anni, chi li aveva congegnati e auspicati non ha mai vinto.
È andata così nel 1994, col Mattarellum realizzato su impulso della Dc che stava diventando Ppi, con un esito del voto che rivoluzionò la geografia politica italiana cancellando il ruolo dell’antico partito-perno, lanciando nuovi protagonisti (Forza Italia) e dando peso e valore alle ali estreme (di destra e di sinistra) che la legge avevano duramente avversato. È accaduto nel 2006, col Porcellum voluto dal centrodestra di allora, che doveva consegnare a Silvio Berlusconi un più saldo governo di legislatura e invece propiziò la vittoria di un soffio, e politicamente fragile, dell’Unione ulivista di Romano Prodi. Quel Porcellum che, poi, non riuscì a essere il "forcipe" del bipartitismo Pdl-Pd e che, nel 2013, accompagnò l’esplosione del Movimento 5 Stelle, l’implosione della meteora montiana e la nascita dell’attuale tripolarismo imperfetto. È accaduto persino nel 2016, con l’Italicum, che non è servito nella sua versione originale a far vincere elezioni (e il M5S di Beppe Grillo aveva ben presto capito di poterlo fare in solitudine proprio con quelle regole), ma ha contribuito moltissimo a far perdere un referendum (e la guida del governo) a Matteo Renzi che l’aveva caldeggiato dopo lo spettacolare (ma non inscalfibile) 41% ottenuto alle Europee del 2014.
Ora le regole le hanno stabilite i giudici costituzionali con sentenze che hanno fatto, e faranno, giustamente e liberamente discutere. E che sanciscono non solo la fine di una stagione politica, ma la solenne "sconfitta" della politica, e una sua drammatica e paradossalmente arrogante inanità addirittura sulla materia che più la riguarda: i modi del rapporto elettorale con i cittadini. Chi siede in Parlamento e ha davvero a cuore il futuro della nostra democrazia e crede che possa essere equilibrato e buono, può rassegnarsi a questo?