Probabilmente ha ragione chi si fida poco delle rassicurazioni dell’amministratore delegato della Fiat, quando dichiara: «Non denuncio esuberi, non chiudo stabilimenti, non andiamo via dall’Italia». Non perché Sergio Marchionne sia ora l’«uomo nero», un millantatore di cui dubitare, dopo essere stato un «manager eccezionale» che ha salvato la Fiat. Quanto invece perché la pesante recessione, la crisi del mercato e dell’industria automobilistica sono reali, vanno ben oltre le volontà e forse anche le capacità dei vertici del gruppo italo-americano. E dunque – al di là di quella che Marchionne chiama la sua «responsabilità» nel non chiudere subito qualche fabbrica come gli consiglierebbero i conti aziendali – sarà bene iniziare a discutere se la produzione di auto in Italia abbia un futuro, e come si possa (ri)costruirlo.La premessa necessaria, però, è quella di rimettere al posto giusto alcuni tasselli della vicenda del piano Fabbrica Italia. In questi giorni, infatti, si è assistito nel dibattito a una sorta di ribaltamento di fatti e situazioni. Quasi che la crisi attuale – e le paventate dismissioni – siano figlie della fiducia e della collaborazione offerta dal sindacato – Fiom esclusa – al progetto di investimenti e nuove modalità di produzione. È vero piuttosto il contrario. È solo grazie all’atteggiamento pragmatico e partecipativo di Fim, Uilm e Fismic se almeno – almeno – gli investimenti previsti a Pomigliano e alla Bertone sono stati concretamente effettuati (1,8 miliardi sui 20 totali previsti), se la produzione della Panda è tornata in Italia dalla Polonia e se una parte almeno – almeno – di lavoratori è rientrata in produzione dalla cassa integrazione. Se nel voto dei lavoratori fosse invece prevalsa la linea oltranzista della Fiom – alla quale è corrisposta una parallela e altrettanto oltranzista linea aziendale – l’unico risultato sarebbe stato la prematura scomparsa dello stabilimento campano e il definitivo spostamento dell’asse decisionale Fiat a Detroit. E le 70 cause di lavoro in corso – con sentenze diverse e tra loro contraddittorie – non aiutano certo né l’azienda a produrre né il Paese ad attrarre investimenti dall’estero.Sul piano politico, poi, appare singolare la posizione di chi oggi da un lato invoca un intervento del governo – in effetti cautissimo – e dall’altro lamenta i troppi soldi assicurati in passato alla Fiat. Cosa dovrebbe fare allora l’esecutivo? Costringere con la forza un’azienda privata a investire? O nazionalizzarla, come ancora sostiene qualcuno? Oppure destinare fondi pubblici (che non ci sono) al sostegno delle vendite di auto, drogando ancora il mercato?In realtà, l’impressione è che la crisi che stiamo attraversando e il più generale cambiamento negli stili di vita siano talmente profondi da prefigurare che anche quando – nel 2014? nel 2015? – la recessione avrà lasciato il posto alla ripresa, le vendite di auto, almeno quelle tradizionali, non saranno più le stesse di 5 o 10 anni fa. Per il costo dei carburanti, per i limiti alla circolazione nelle città, per una più diffusa coscienza ambientale, per il cambiamento degli
status symbol. O non fosse altro perché l’Italia è già satura di automobili e la sostituzione dei modelli sarà più lenta. A meno che quei modelli non siano realmente innovativi per consumi, alimentazione alternativa, tecnologie integrate. Su questo – e solo su questo – varrebbe la pena di prevedere anche investimenti pubblici indirizzati alla ricerca e alla prima commercializzazione dei prodotti.Un tempo – ma era ormai il secolo scorso – si diceva che «ciò che andava bene alla Fiat andava bene al Paese». Oggi questa identificazione non c’è più e i successi di molte aziende italiane nelle esportazioni testimoniano che si può produrre da noi a patto di assicurare valore aggiunto di innovazione, qualità e stile unici. È questo che è mancato soprattutto alla Fiat negli ultimi anni. Non un
restyling in più della Punto, ma l’invenzione dell’"iPhone dell’automobile", la capacità di imporre sul mercato un qualcosa che prima non c’era e che risponde a un bisogno. Di questo soprattutto dovrebbero parlare il presidente Monti e Marchionne sabato quando s’incontreranno. Di quali investimenti debba fare Fiat e di quali azioni di politica industriale possa mettere in campo il governo. L’alternativa, infatti, è che la produzione da noi diventi sempre meno competitiva, fino a scomparire. Amara soddisfazione per coloro che oggi rivendicano: «Noi l’avevamo detto».