La ripresa economica non è bastata: le persone in povertà assoluta sono cresciute nel 2017 fino a superare i 5 milioni, triste record dal 2005. Non è stata una sorpresa, però. Semmai la conferma che nelle società moderne la crescita del Pil non è di per sé sufficiente a far emergere dalla miseria chi si ritrova ai margini perché non attrezzato – per grado di istruzione, età o condizione di provenienza – ad affrontare i sempre più veloci cambiamenti sociali e del lavoro.
La marea, quando anche si alza – come accaduto nel 2016 e nel 2017 con il Pil a +0,9 e +1,5% – non fa automaticamente galleggiare meglio tutte le barche. Anzi, i processi di ristrutturazione che si accompagnano alle fasi di ripresa, spesso finiscono per sommergere quelle più fragili. E così è successo lo scorso anno: i poveri assoluti sono aumentati in particolare per cinque categorie (spesso intersecate): gli abitanti del Mezzogiorno, i giovani, gli operai, gli stranieri e le famiglie con figli. Si tratta di gruppi sociali che più degli altri hanno sofferto le conseguenze della crisi, ma soprattutto che scontano una minore "copertura" in termini di welfare e opportunità. Basta considerare come l’incidenza della povertà assoluta sia inversamente proporzionale all'età: i bambini, soggetti non tutelati da adeguate politiche familiari, e i giovani, schiacciati dal precariato, registrano un tasso doppio (9,6%) rispetto a coloro che hanno più di 64 anni e per la maggior parte possono godere di una pensione (4,6%). È la riprova che per tutelare le fasce più deboli della popolazione occorrono misure specifiche. E un approccio di tipo multidimensionale perché, pur restando l’elemento fondamentale, non è più solo la mancanza di lavoro a determinare la caduta nella miseria, ma questa coinvolge anche famiglie in cui la persona di riferimento è occupata. A causa di salari troppo bassi, di rapporti discontinui o per il minor grado d’istruzione. Tanto che l’incidenza della povertà assoluta nelle famiglie con "persona di riferimento operaia" è quasi tripla rispetto ai nuclei con un pensionato e così pure per quelle con licenza elementare rispetto ai diplomati.
I dati Istat sono riferiti al 2017 e dunque non danno ancora conto degli effetti di una misura come il Reddito di inserimento, partita operativamente a gennaio 2018 e che solo da questa domenica assume un carattere pienamente universale, senza più essere rivolta a specifiche categorie di persone. Si può immaginare, però, sulla base dei primi dati del monitoraggio effettuato a marzo, che l’incidenza sul fenomeno sarà ancora limitata per almeno tre ragioni su cui ci siamo soffermati più volte in passato. La prima è che gli stanziamenti dedicati al Rei (2 miliardi di euro circa) non permettono di raggiungere neppure la metà dei 5 milioni di bisognosi; la seconda è che gli importi previsti sono troppo bassi (187 euro al mese per una persona); la terza che si sta ancora mettendo a punto la "macchina" dell’accompagnamento delle persone al di fuori della povertà.
Questi ben noti limiti, però, non devono essere l’alibi per buttare a mare quanto già fatto, quanto piuttosto lo stimolo, ora più urgente data l’emergenza della crescita delle povertà, per portare a compimento e potenziare l’intervento avviato. Il vicepremier Luigi Di Maio ieri ha rilanciato il progetto del Reddito di cittadinanza impegnandosi a renderlo operativo già dal prossimo anno. Le etichette – e le rivendicazioni politiche – per chi è in stato di bisogno contano davvero poco, anzi nulla. E dunque ben venga l’idea, come nel progetto dei Cinque stelle, di rendere assai più consistente il sussidio monetario ed estenderne il bacino dei beneficiari. A patto, però, di evitare alcuni errori fondamentali. Il primo è quello di puntare tutto e solo sul lavoro, la sua ricerca attraverso i Centri per l’impiego (Cpi). Occorre invece conservare un approccio appunto multidimensionale al problema, rafforzando non solo i Cpi ma tutti i servizi sociali di accompagnamento.
Il secondo errore è quello di avviare un mega intervento, insostenibile sul piano finanziario e distorcente delle retribuzioni e del mercato del lavoro. Il terzo: illudersi che basti la flat tax a far galleggiare meglio tutti. Non è così, anzi le diseguaglianze rischiano di aumentare. Il quarto errore, infine, sarebbe cedere alla tentazione leghista di escludere dal programma i residenti stranieri. I bisognosi non si distinguono per colore o per cittadinanza: non lo permettono le norme europee e italiane, come stabilito da diverse sentenze, non lo consente la nostra umanità. Ai poveri si devono attenzione, vicinanza e soprattutto rispetto: mai strumentalizzarli a fini politici.