È sempre più evidente che l’immigrazione non può essere ridotta a un fenomeno di natura meramente economica. In Italia non arrivano "braccia da lavoro" ma persone. Uomini e donne che sono spinti fin qui dalla povertà e dal desiderio di trovare posto nel nostro sistema produttivo, e insieme cercano di realizzare la loro umanità, che è fatta di esigenze materiali e spirituali, di soldi e di cultura, di casa e di scuola, di diritti e di doveri. Anche se il mito del ritorno nella terra di origine continua a dimorare nella mente e nel cuore di molti, l’esperienza di questi anni insegna che la tendenza largamente prevalente è quella di rimanere in Italia, di mettere radici, di cercare integrazione. E il fattore principale di qualsiasi autentico processo d’integrazione è la famiglia. Come ben sanno i nostri connazionali che in passato avevano cercato fortuna in Europa o oltreoceano, la possibilità di farsi raggiungere dalla moglie, dal marito o dai figli rappresenta un traguardo da perseguire quando diventa evidente che l’avventura migratoria sarà senza ritorno o comunque di lungo periodo. È un’esigenza naturale, che appartiene all’esperienza elementare della persona, e quando viene soddisfatta ci si sente parte ancora più integrante della città o del paese nel quale si vive, meno estranei perché meno soli. Solo chi corona il sogno di vivere insieme alla propria famiglia si sente a casa anche quando non può rientrare nel suo Paese, e quindi si percepisce meno "straniero" rispetto al corpo sociale in cui vive e lavora. Per questo una politica migratoria lungimirante, che abbia come obiettivo una reale integrazione delle persone e non soltanto l’utilizzo comunque sia di "braccia da lavoro", deve guardare con favore ai ricongiungimenti familiari. Con l’ovvia avvertenza di evitare abusi (che in verità, come documentano le cronache, non sono mancati) o tentativi di forzare il concetto di famiglia radicato nella tradizione giuridica del nostro Paese, che non può essere incrinato da tentativi più o meno espliciti di introdurre pratiche che derivano dal matrimonio poligamico.La Giornata delle migrazioni che la Chiesa italiana celebra oggi invita a rimettere al centro la persona in tutte le sue dimensioni e rilancia come una sfida le parole di san Paolo nella
Lettera agli Efesini: «Non più stranieri né ospiti, ma della famiglia di Dio». Parole che non possono essere ridotte a un messaggio buonista ed evasivo, evocando invece la necessità di valorizzare ogni individuo come parte integrante di un grande progetto di convivialità, nel quale le differenze diventino un potenziale di ricchezza. Come accadde duemila anni fa nel giorno di Pentecoste, quando la diversità di lingue e culture presente tra quanti erano radunati nel Cenacolo rese evidente per la prima volta la vocazione universale del cristianesimo. E come accade anche oggi in Italia (lo documentano le esperienze che pubblichiamo a pagina 3), dove le comunità di migranti stanno diventando sempre di più parte attiva nella vita delle comunità locali, che si considerano e vengono considerate membri di un’unica famiglia. Un piccolo-grande segno della fede che diventa fattore di integrazione, crea o rinforza vincoli di appartenenza, costruisce un’identità arricchita in un Paese che ne ha molto bisogno.