Il neo-presidente degli Stati Uniti, Joe Biden - Ansa
Se si confrontano il discorso di insediamento alla Casa Bianca di Donald Trump di quattro anni fa e quello di Joe Biden del 20 gennaio scorso risulta evidente una differenza di stile comunicativo che denota non solo la distanza tra i due personaggi, ma anche il cambio d’epoca che stiamo attraversando – dato che, con tutto il suo portato di fragilità e dolore, la pandemia ha messo in scacco ogni prosopopea trionfalistica.
Ecco perché, se ieri Trump, fedele al proprio personaggio, poteva permettersi affermazioni del tipo «questo scempio (carnage) americano deve interrompersi e si interromperà in questo preciso istante», oppure «stiamo per imporre un nuovo ordine che verrà udito in ogni città, in ogni capitale straniera e in ogni aula del potere», contrapponendo il popolo (la parola più ricorrente nel suo discorso) al sistema, Biden appare oggi molto più consapevole della difficoltà della situazione («la battaglia è perenne e la vittoria non è mai assicurata») e della necessità di ricucire le fratture, le ferite e gli strappi: unità, unirsi, unione sono parole che compaiono ben una trentina di volte nel suo discorso di insediamento. Ma anche umiltà e rispetto.
Dalla tracotanza muscolare alla consapevolezza del limite, dall’eccesso alla misura, dalla contrapposizione all’empatia, dalla dimostrazione di forza all’invito alla resilienza e alla riconciliazione. I greci parlerebbero di hybris (l’atteggiamento violento e presuntuoso tipico di chi non accetta vincoli e non riconosce in sé e nella propria condotta alcun limite) e aidos (umiltà, rispetto, senso della misura).
Ma c’è molto più di una differenza di personalità o di circostanze. Quando Joe Biden afferma «possiamo unire le forze, fermare le urla e abbassare la temperatura» o «dobbiamo affrontare un attacco alla nostra democrazia e alla verità», non fa solo una critica allo stile comunicativo del suo predecessore, ma denuncia un regime comunicativo ormai consolidato, all’insegna di quella che è stata definita (come parola dell’anno 2016) «post-verità», dove i fatti contano meno degli appelli all’emotività e delle convinzioni personali. «Dobbiamo rifiutare la cultura in cui i fatti stessi vengono manipolati e persino fabbricati», «difendere la verità e a sconfiggere le bugie», afferma Biden nel suo discorso. Perché «c’è verità e ci sono bugie, bugie raccontate per il potere e per il profitto».
Verità è parola che compare più volte nel discorso di Biden (mai in quello di Trump di quattro anni fa). Ma non come parola divisiva, come possesso di una parte contro l’altra, bensì come dovere e responsabilità di tutti.
Ora se fake news e hate speech (i discorsi d’odio, surrettiziamente spacciati per free speech, cioè per parole libere) sono elementi chiave di quella post-verità che ha alimentato il consenso post-politico tipico dei populismi, possiamo sperare che la svolta comunicativa ufficializzata con l’insediamento di Biden, insieme con lo schiaffo alla hybris tecnocratica inflitto dal Covid, segnino l’inizio di una nuova era della comunicazione pubblica.
Una via basata sull’ascolto piuttosto che sullo schieramento («Ascoltiamoci l’un l’altro. Vediamoci l’un l’altro. Mostriamo rispetto gli uni per gli altri», ha auspicato Biden); sul diritto a dissentire pacificamente senza che il disaccordo porti alla divisione; sulla possibilità di vedersi come vicini piuttosto che come avversari. Una via, come recitato dalla giovane poetessa afroamericana Amanda Gorman, dove la misericordia deve unirsi con il potere e il potere con il diritto, per lasciare una eredità di amore; una via di ponti e non di lame. Per ricostruire, riconciliare, guarire. Senza voler negare né minimizzare le difficoltà, ma assumendole e cercando vie di riparazione.
Anche Biden parla di popolo, in diversi passaggi del suo discorso, ma in una accezione non populista. Citando sant’Agostino, afferma che un popolo si definisce per ciò che ama. È l’ordo amoris che definisce il popolo. O, con le parole di Amanda Gorman, una unione con uno scopo, con un sogno, da costruire insieme. Non solo con chi ci somiglia – spazializzando le differenze e trasformandole in schieramenti – ma prendendosi il tempo di ascoltarsi, confrontarsi, trovare o costruire ragioni per camminare insieme. «Dobbiamo porre fine a questa guerra incivile che mette il rosso contro il blu, campagna contro città, conservatore contro liberale. Possiamo farlo se apriamo le nostre anime invece di indurire i nostri cuori».
Colpisce tra i leitmotiv della giornata inaugurale quello della gratitudine: dallo stesso Biden che cita American Anthem (il cui inizio recita «tutto ci è stato dato da chi è venuto prima»), a Kamala Harris che ricorda le generazioni di donne che hanno preparato la strada al suo ruolo di prima vicepresidente donna. Gratitudine significa senso del legame, del limite, della responsabilità. Per Hannah Arendt è il fondamento stesso della morale. Il legame tra le generazioni, la gratitudine per l’eredità e la responsabilità per ciò che lasceremo, sono dimensioni di quella verità dove tutto è connesso, dove il vero è un intero e non la posta di una lotta tra fazioni, con ogni mezzo.
L'era della post-verità è quella, arrogante, che ha alzato la voce e bandito il mistero e il silenzio. La verità, al contrario, è inesauribile e inoggettivabile e, come scriveva Pareyson, richiede umiltà. Non tutto può essere detto, reso trasparente, circoscritto e definito da parole. Alcuni aspetti possono essere solo evocati. Da qui l’importanza dei simboli, che allargano i nostri orizzonti di senso. E la consapevolezza che non contano solo le parole, ma tutto ciò che fa parte della situazione comunicativa. La grande colomba dorata sull’abito di Lady Gaga, per esempio. Anche il codice cromatico dell’intera cerimonia è stato altamente simbolico: il viola dell’abito di Kamala Harris, fusione del rosso e del blu dei due partiti ma anche richiamo alle suffragette; il bianco candido di Jennifer Lopez, abitobandiera di riconciliazione; il giallo solare di Amanda Gorman, che ha invitato con grazia al coraggio di vedere la luce e di farsi luce. Anche questo, forse, fa parte di una nuova era del discorso pubblico.
L'epoca della post-verità pare al tramonto, anche se non sarà facile né breve il tragitto per superare la notte che ha generato. Forse non è una caso che una parlamentare norvegese, Trine Skei Grande, abbia proposto l’International Fact-Checking Network (Ifcn), una rete composta da decine di media e organizzazioni attive in tutto il mondo nella verifica dei fatti, per il Premio Nobel per la Pace. E certo un caso non è che papa Francesco ci ricordi, nel suo Messaggio per la Giornata delle comunicazioni sociali 2021, che la strada oltre «l’eloquenza vuota» e per «andare alla verità » passa per la prossimità, si snoda attraverso il «vieni e vedi». Vale per tutti, credenti e non credenti, perché storie e fatti si comprendono e si comunicano davvero «incontrando le persone dove e come sono».