giovedì 23 agosto 2012
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La frattura che ha infranto clamorosamente antiche e recenti solidarietà tra i cosiddetti "giustizialisti" è così evidente che non ha bisogno di particolari illustrazioni. Com’è noto, il detonatore di questa deflagrazione è stata la decisione della Procura palermitana di non distruggere le registrazioni di telefonate del Capo dello Stato, che ha considerato questa scelta lesiva delle prescrizioni costituzionali secondo le quali il Presidente della Repubblica può essere indagato e processato solo per alto tradimento e attentato alla Costituzione. A decidere della controversia sul piano giudiziario sarà la Corte costituzionale, alla quale si è rivolto il Quirinale, com’è suo diritto e dovere quando vede concretarsi il rischio che le prerogative istituzionali della carica vengano manomesse con un "precedente" non debitamente contestato.L’aspetto giuridico è stato rapidamente travalicato da una imponente polemica politico-mediatica, con un giornale che si propone come "organo" del giustizialismo che raccoglie firme a sostegno dei pm palermitani, il fondatore di Repubblica, Eugenio Scalfari che sostiene le ragioni del Presidente della Repubblica, contestato sul suo stesso giornale da editorialisti come Gustavo Zagrebelsky e Franco Cordero. Anche nella magistratura si avvertono tensioni, esplicite come quelle di Giancarlo Caselli che, rivendicando una continuità nelle azioni della procura palermitana che ha diretto attacca frontalmente Pier Luigi Vigna, già procuratore antimafia, che invece fa le pulci a quell’esperienza. Il procuratore generale della procura torinese, Marcello Maddalena – che a suo tempo aveva firmato con Marco Travaglio una sorta di vademecum dal titolo "Meno grazia, più giustizia" – stupisce certi vecchi amici, ma non quanti hanno spesso apprezzato il suo sereno rigore, ribadendo che «le intercettazioni non penalmente rilevanti non dovrebbero essere diffuse. Mai».L’interpretazione prevalente dell’implosione della galassia giustizialista, che Luciano Violante – intervistato su queste pagine e, poi, anche altrove – ha definito «populismo giudiziario» volto a delegittimare il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e quello del Consiglio dei ministri Mario Monti, naturalmente si basa sulla differente reazione che hanno suscitato le iniziative giudiziarie che in qualche modo coinvolgono il Quirinale, con divisioni interne al fronte giustizialista (oltre che alla stessa magistratura), rispetto al consenso di quest’area a quelle assai numerose che sono state avviate nei confronti dell’allora premier Silvio Berlusconi e rispetto alle cautele e ai silenzi imbarazzati quando un magistrato oggi politico mise nel mirino il premier Romano Prodi. Una lettura basata semplicemente sull’utilitarismo politico, che ha un suo fondamento abbastanza evidente, risulta però un po’ troppo semplicistica. Quella che emerge è una divaricazione di visioni, che contrappone un giustizialismo che potremmo chiamare "strutturale" a uno puramente funzionale.Al fondo del giustizialismo strutturale c’è la convinzione che il "controllo di legalità" implichi una sorta di diritto della magistratura a decretare la legittimità politica, determinando così di fatto una gerarchia tra i poteri dello Stato diversa da quella determinata dall’equilibrio tra i poteri definito nella Costituzione.I sostenitori di questa visione (accreditata per esempio da Zagrebelsky quando sostiene che l’indicazione di Luigi Einaudi di mantenere intatte le prerogative presidenziali sarebbe «più monarchica che repubblicana») sono una ridotta minoranza, ovviamente anche nella magistratura, ma una minoranza assai attiva e influente. La maggioranza di giuristi e toghe invece ha una visione funzionale dell’indipendenza della magistratura, e ha finito per associarsi all’ala fondamentalista solo quando ha ritenuto, a torto o a ragione, che quell’indipendenza fosse messa in discussione dai poteri politici.L’iniziativa del Quirinale, appoggiata esplicitamente dal premier, appare assai pericolosa alla minoranza fondamentalista proprio perché costituisce obiettivamente un terreno sul quale la maggioranza può aggregarsi, senza temere l’ondata di critiche e di delegittimazioni che caratterizzava in passato il circuito mediatico-giudiziario. Sarebbe forse il momento di dare anche una risposta legislativa equilibrata ed equilibratrice sul punto cruciale delle intercettazioni e della loro sistematica divulgazione mediatica, ma l’imbarazzo del Pd, che si rifugia nella solita formula della mancanza di tempo, e l’insistenza rivendicativa e poco lungimirante del Pdl a voler partire nella discussione dal "suo" progetto di legge, sembrano concorrere a produrre un altro nulla di fatto. Speriamo di no. Altrimenti un’altra questione irrisolta, causa di conflitti istituzionali e di tensione politica, sarà lasciata in eredità alla prossima legislatura.
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