giovedì 22 settembre 2011
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Ci sono imprese che gli italiani conoscono molto bene, perché hanno a che fare tutti i giorni con le attività che svolgono e i servizi che offrono, e ne apprezzano la qualità oltre che l’importanza. Ma sono imprese che, quando vengono definite o raccontate a partire dalla categoria più vasta alla quale appartengono, sembrano entrare in un’area meno definita, impersonale e lontana dall’immaginario collettivo. Perdendo fatalmente peso o "rilevanza" politica. Questo è il destino che, in generale, accomuna le realtà del cosiddetto "non profit", le imprese sociali nel loro insieme.Tutti noi, chi più chi meno, abbiamo a che fare ogni giorno con realtà che appartengono a questo universo e se, per fatalità, ne fossimo privati all’improvviso, ci renderemo conto dell’importanza che ricoprono. Eppure è possibile siano in molti che, leggendo o sentendo parlare di «cooperative sociali in crisi» – veniamo così alla notizia di oggi – probabilmente considereranno che la cosa non li riguardi più di tanto, se non da molto lontano. Per tale ragione forse è necessario ricordare che cosa sono le cooperative sociali e a che cosa può portare una crisi in questo settore. Sono imprese senza scopo di lucro che nascono con due obiettivi di fondo: creare opportunità occupazionali per categorie di persone gravemente svantaggiate o ai margini del mercato del lavoro, e per fornire servizi sociali, sanitari, di assistenza domiciliare, educativi, a favore di minori, famiglie con bambini, anziani, malati, disabili.In pratica, buona parte del welfare locale e sussidiario – dagli asili nido alle imprese di pulizie che occupano persone in difficoltà – è affidato a cooperative sociali. E venire a sapere che la crisi, a causa delle ristrettezze economiche e delle minori capacità di spesa dei Comuni colpiti dai tagli, sta incominciando a colpire duramente anche qui, come emerge dall’ultimo rapporto dell’Osservatorio Isnet di Trento, dovrebbe preoccuparci doppiamente. Perché in gioco non c’è solo l’erogazione a costi sopportabili, sul territorio, di servizi spesso fondamentali per la tenuta sociale di una comunità, ma è evidente anche il rischio di un’emorragia occupazionale che riguarda i più deboli del mercato e, tra gli operatori dei servizi, persone spesso giovani, capaci e preparate. Un capitale sociale e umano rischia di venire intaccato e compromesso, con costi potenzialmente molto alti per tutti.Ora, trattandosi pur sempre di imprese, per quanto "sociali", va riconosciuto che una fase di crisi può anche aprire nuove opportunità, incentivare meccanismi virtuosi, cambiare gli scenari di mercato e favorire riconversioni e trasformazioni non necessariamente negative. Il mondo del non profit e del volontariato ci ha dimostrato negli anni una formidabile capacità di adattamento ai nuovi bisogni, ben più efficace e rapida di quanto non abbiano saputo fare molti e ben più celebrati settori produttivi dell’economia "for profit".A preoccupare è, piuttosto, il contesto culturale nel quale si stanno manifestando i problemi delle cooperative sociali. Una crisi che rientra nello scenario più ampio delle difficoltà – fiscali ma non solo (si pensi all’aumento dell’imposizione sugli utili destinati a riserva) – che sta incontrando l’intero movimento cooperativo, delle grandi come delle piccole realtà. E che si unisce alla diffidenza, cambiando sponda politica, per un modello di sviluppo che attribuisca pieno merito a tutte le realtà del privato sociale. In tutto questo, ad essere palese è il deficit di capacità politica di una classe dirigente nel leggere a fondo la realtà italiana. Come se a confrontarsi fossero comunque visioni della società incapaci di percepire le diverse finalità del profitto, la differenza tra ricchezza personale e ricchezza collettiva, o la voragine che separa il bene privato – o di casta, di area culturale, di partito – dal bene comune.
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