Decisamente una giornata no per Donald Trump, quella di mercoledì (a cavaliere dei fusi orari tra Hanoi e Washington). In fumo il summit con l’ormai quasi amico Kim Jong-un e una raffica di accuse domestiche dal suo ex avvocato e "faccendiere". Il vertice nel Vietnam, che non porta fortuna all’America (con la ferita della guerra persa sul campo e in patria), si è trasformato da passerella di successo a un fallimento dalle conseguenze ancora imponderabili. I sorrisi che rimangono nelle immagini tv e i toni comunque concilianti delle conclusioni non possono nascondere che il momento magico per un’intesa è svanito e ora la prospettiva di indurre per via diplomatica la Corea del Nord a un vero disarmo nucleare si fa esile. Il dittatore si sente abbastanza forte da alzare la posta e chiedere agli Stati Uniti la revoca di tutte le sanzioni, un cedimento che Trump non poteva accettare senza esporsi a un rischio reale e di immagine.
Il sogno di una penisola denuclearizzata viene riposto nel cassetto e, alla fine, a guadagnarci sembra sia stata soprattutto Pyongyang, uscita dall’angolo degli impresentabili, con la possibilità di sedersi al tavolo di un presidente Usa che ha rimosso gli oltre centomila prigionieri politici rinchiusi in campi di lavoro forzato, per citare solo il più eclatante dato sulle violazioni dei diritti umani in Nord Corea. Con Kim si doveva trattare nel momento in cui le sue armi atomiche sembravano in grado di raggiungere il suolo americano, e ciò ha giustificato l’incontro di Singapore dello scorso giugno. Dargli ulteriore legittimazione senza avere la certezza di un risultato importante è stato un errore, che non è ancora chiaro se da attribuire al solo capo della Casa Bianca – della cui incompetenza in politica estera e della conseguente sfiducia dei collaboratori più stretti ha fornito ampie prove Bob Woodward nel suo Paura – o anche al Dipartimento di Stato. In ogni caso, il dittatore rimarrà saldo in sella con il suo arsenale fin tanto che la situazione economica interna glielo consentirà e i suoi sponsor regionali (leggi: Cina) avranno interesse a sfruttarne il potenziale di rottura. È probabile che per un po’ di tempo mantenga toni bassi e non faccia svolgere test minacciosi, di certo non concederà gratis al presidente Usa quel trofeo che avrebbe fatto molto comodo sul fronte interno americano. Su questo terreno Trump si giocherà ormai la partita della rielezione.
Sebbene l’economia continui a tirare – è di ieri la conferma di una crescita del Pil al 2,9% lo scorso anno, miglior risultato dal 2015 –, la deposizione di Michael Cohen al Congresso sembra capace di aprire un nuovo capitolo di accuse e di dare nuove armi all’opposizione. È chiaro che l’ossessione dell’impeachment potrebbe rivelarsi un boomerang per i democratici. Non si vedono all’orizzonte "pistole fumanti" – soprattutto in relazione al Russiagate – in grado di convincere sufficienti senatori a votare la rimozione del presidente dalla carica. Emerge invece sempre più chiaramente il torbido affarismo degli ambienti vicini alla Casa Bianca e il basso profilo istituzionale di un leader che definisce in privato i «neri troppo stupidi per darmi la loro preferenza» e non dimostra tutto quell’attaccamento al proprio Paese che manifesta in pubblico. Niente di nuovo per i suoi detrattori della prima ora, ma un ulteriore colpo alla fiducia di coloro che nelle urne potrebbero essere indecisi. I trumpiani convinti non saranno turbati nemmeno da altre rivelazioni, in un’era nella quale per molti la propaganda rende le evidenze contrarie uno stimolo rafforzato a chiudersi nelle proprie incrollabili certezze.
In ogni caso, è troppo lontano il voto del novembre 2020 per fare pronostici. E la Casa Bianca, perso Kim, cercherà nuove sponde internazionali per arricchire il carnet dei successi. Resta la grande partita dei dazi con Pechino, dalla quale l’America potrebbe ottenere di prolungare il suo boom economico. La scommessa sul Muro con il Messico, su cui Trump ha puntato molto, sarà invece una delle prove interne chiave. Sempre che, nel frattempo, la Camera a guida democratica non riesca a ottenere finalmente che siano rese note le ultime dichiarazione dei redditi del presidente, finora tenacemente tenute riservate. Potrebbe essere quella, banalmente, la buccia di banana più insidiosa per l’uomo che guida la superpotenza mondiale.